Tutti: lo pensiamo tutti. Quando quest'anno terminerà, sarà troppo tardi.

Perché si è portato via tante, troppe persone; tanti, troppi affetti; tanti, troppi ricordi.

No. quelli no.

La mia generazione ha vinto perché oggi io perdo un amico, seppure lontano e a volte irraggiungibile. Per il mio rispetto, non certo per la sua indole serena. Felice.

La mia generazione ha vinto perché l'unica missione di un bambino di nove, dieci, undici anni è sognare, sognare, sognare. E quell'eroe piccolo, mingherlino ma implacabile e sorprendente eravamo noi, due magliette a far da pali e gol all'amico che stava in porta.

La mia generazione ha vinto perché il cronista di Rede Globo sconfortato mormora 'otra vez Paulo Rrosi' quando il piccolo, mingherlino col 'vinte' mette la terza palla alle spalle di Valdir Perez. E il nostro Nando Martellini pare ancora più incredulo di lui.

La mia generazione ha vinto perché le telecamere non avrebbero potuto inchiodare quel difensore dalle fattezze vagamente mediorientali nell'atto di brutalizzare Maradona mentre la prima di due gare da nemmeno giocare, tanto sarebbero state scontate, pendeva dalla parte di Bearzot.

La mia generazione ha vinto perché accanto a me avevo nonno e papà, le due anime che mi hanno guidato nell'amore per il calcio. Quei pomeriggi caldissimi, così come le notti di quattro anni prima. Mamma che ci sveglia a mezzanotte, c'è Argentina-Italia e per noi quel pallone che rotola è la vita, il sogno, il mito. Eravamo piccoli ma nostro nonno ci diceva già che laggiù c'era un tal Videla che gli ricordava nefasti momenti di lui chiuso in un vagone piombato. Segna Bettega, piacere doppio.

La mia generazione ha vinto perché prima di quella nazionale non avevamo vinto nulla, niente, zero.

La mia generazione ha vinto perché il gelato alla stracciatella si era congelato e stava sulla finestra a sciogliersi un po' quando quell'omino mingherlino strappava palla a un marcantonio come Breitner lanciando il contropiede: Tardelli infilava la palla e urlava. E urlavamo, noi, come avevamo mai fatto, senza vergogna, senza ritegno. Tre generazioni assieme, ed era giusto così.

La mia generazione ha vinto per quel Presidente che se ne frega dell'etichetta, si volge verso le autorità e dice loro 'non ci prendono più'. Ed era, ed è il mio Presidente. Che usava un italiano corretto senza bizantinismi tipo 'interlocuzione'.

La mia generazione ha vinto nelle strade piene di gioia, chissene se è solo calcio. E quel numero 'vinte' con sei reti ci aveva portati in paradiso. In paradiso. In paradiso.

La mia generazione ha vinto.

Io ho vinto perché grazie a Nicola ho avuto la fortuna di conoscere una persona straordinaria, grande nella sua semplicità. Campione del mondo, d'Europa, pluricampione d'Italia, pallone d'oro: ci sarebbero stati tutti gli elementi per comportarsi come tanti pedatori odierni. Invece Paolo era l'esatto contrario. Paolo era semplicemente Paolo.

Dopo Diego, un altro pezzo di cuore, il nostro, si spegne. È inevitabile, purtroppo: ma l'ineluttabilità non emenda il cuore, il nostro, dal dolersi per il tempo che avanza senza pietà: della nostra debolezza, dell'amore che nutriamo per un'ala sinistra modestamente impostata, figuriamoci per un campione del mondo. Della forza, della foga dei ricordi di un'epoca durissima per il paese, bellissima per noi.

Fra di 'noi', oggi, ci saremmo abbracciati. Non si può, è come se l'avessimo fatto. E tutti, e ognuno di noi vorrebbe abbracciare forte quel ragazzo mingherlino, quell'omino, quell'eroe italiano così tipico e così diverso dagli omerici colleghi che popolavano i campi da gioco.

Invece possiamo solo dirgli 'buon viaggio, Paolo'. Mi duole, e ci piango, pensare che l'empìreo dei miei eroi di tutti i giorni è ormai più popoloso di quello rimasto qui, in terra. 'Buon viaggio, Paolo' perché per noi, in fondo, sei solo andato in trasferta. Mi spiacerebbe solo sapere che hai sofferto troppo, non te lo saresti meritato. Per la bella persona che eri. Che sei.

Già, che sei: in fondo quella trasferta, prima o dopo, la dovremo fare tutti. Non sono mai riuscito a capire chi ti avesse preso quei sigari, a Verona: quanto ci abbiamo riso sopra!

Ci hai regalato l'allegria del calcio, quel calcio che oggi troppi considerano un lavoro come un altro. Quella nessuna trasferta ce la potrà rubare.

Ho a lungo riflettuto se scriverne o no, ché parole ne sono state versate tante. Ho deciso di farlo, come sutura ad una ferita che, due pagine dall'inizio, sanguina ancora dolorosamente.

La mia generazione ha vinto. Grazie a persone come Paolo e Diego.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 10 dicembre 2020 alle 23:24
Autore: Franco Canciani
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