Se ne va, il 2020: senza rimpianti, senza colpevolizzare chi aveva dedotto dal 'doppio venti' dell'annata un fausto presagio. Superstizioni. Càpita.

È andata come sappiamo, e non ci vorrei tornare sopra. Abbiamo imparato a stare soli, non per scelta ma per necessità; abbiamo imparato a usare la tecnologia per sentirci meno isolati, e questo alla fine è stato uno dei pochi lati positivi. Tralascio i 'balconi' e le canzoni che dimentico volentieri.

È andata come sappiamo, con un'Udinese che si barcamena fra prestazioni modeste, gare mediocri e qualche punto da peana prolungato. Alla fine la solita Biancanera, con la speranza che un aumentato tasso tecnico e barlumi sempre più concreti di gioco possa alla fine rendere alla tifoseria la versione più 'riconoscibile' dei ragazzi di bianchenero vestiti, e dal San Simeone sputati.

È andata così. Ma la mia generazione, che come ho già scritto ha vinto, ha perso due punti di riferimento, della passione, dell'ambizione.

Di uno non abbiamo parlato, perché lo hanno fatto tutti e spesso a sproposito: Diego Armando, classe '60, è stato 'la teoria del tutto' per noi che smaniavamo dietro una palla di cuoio a esagoni e pentagoni. Piccolo, brutto da vedere, un casco di capelli ricci su due gambe ipertrofiche; la capacità di far fare alla palla quel che voleva quando a noi sarebbe nemmeno passato per la testa. In campo non l'ho sempre amato: l'ignobile Pirandola di Lecce ed il suo assistente numero due gli permettono, allo scadere di una partita inutile del 1985 al Friuli, di schiaffarla in porta con la mano fasciata (e quindi ancora più visibile a noi curvaiuoli); lì ho pensato 'perché, Diego?'. Sapevamo sarebbe stata l'ultima recita in bianconero di Arthur, e già questo sarebbe bastato; era l'Udinese di Vinicio, e questo era 'tutto in più'; ora quello che per noi rappresentava il calcio fuori dalle righe, dagli schemi, dalle marcature ci tradiva.

Zico non le mandò a dire; io cercai di dimenticare. Peggio fu andare a Cremona, la settimana successiva, orfani definitivi del nostro capitano a prenderle da una squadra retrocessa un girone prima. Segnò Finardi, ma non il cantautore; raddoppiò tale Torresani, mi sentii umiliato.

Dopo un annetto Diego avrebbe portato quella mano a dimensioni totali: da quella di un curioso figuro di Lecce, all'ultima gara diretta, alla famosissima 'mano de Dios'.

Divenni appassionato dei colori partenopei grazie a lui, a Careca, ad Alemao e tutti coloro i quali in campo lo proteggevano e gli permettevano, al netto delle tante botte prese (e ben poche proteste manifestate) di decidere le gare. Spesse volte da solo.

Non per nulla a Napoli non si sono vinti campionati, né prima né dopo.

Mi è spiaciuto aver perso Diego Armando, uno del barrio che anche in cielo, perché i suoi peccati non gli costeranno penalizzazioni a mezz'altezza, divertirà tutti con i suoi numeri. Unico.

Ma quest'anno così disgraziato, come lo scorpione che tanto temo, riserva il peggio alla fine. Il veleno nella coda, in cauda venenum..

Ci svegliamo, qualche settimana fa: una notizia di quelle da circoletto rosso. Pablito è andato avanti.

Io Pablo lo conoscevo: non bene, ma lo conoscevo. E ancora di più Alessandro, il figlio. Così simili, così diversi: li ho, a mio modo, amati come si ama un'idea nel caso di Paolo, un fratello più piccolo parlando di Ale. Quando ci siamo visti, o sentiti, con Paolo erano solo parole positive, idee, progetti, senza parlare, mai, male di nessuno. Così come faceva in televisione, esercizio che sopportava per l'amore verso il calcio e i suoi supporter. E di questo siamo felici. Ce lo siamo goduti, almeno, un po' di più.

Abbiamo passato, assieme all'amico Nicola (chiamiamolo Nick. Chiamiamolo bomber, così si riconosce), una stupenda domenica al Vinitaly di un paio d'anni fa, prima che quel mal di schiena si trasformasse in questa maledetta vicenda. Ad ogni passo 'ciao Paolo', 'grande Pablito', 'una foto Paolo' e lui sempre sorridente accondiscendeva, ripagando quel debito di riconoscenza verso i tanti, tutti, quelli che dopo la vicenda di cui fu vittima lo attesero.

Il più ardito si lanciò in un 'eh Paolo chissà quanta fi*a hai vista tu...'; e lui 'no, guarda, quello è Cabrini'. Chapeau.

Gli occhi lucidi dello stand di un produttore piemontese in cui tutti erano tifosi juventini; l'imbarazzo del toscano che, quando gli dicemmo 'passiamo con Paolo Rossi' non ci credeva.

E alla fine cercare di capire chi si fosse preso i sigari che lo stand dell'Antico Toscano' gli aveva regalato...

Non li ho ancora trovati, quei sigari, Paolo; ma dove sei ora di certo avrai modo di accendertene uno. Fumatelo assieme ad Enzo e alla sua pipa, accanto al Paròn e a tutti quelli che sono andati avanti.

A me rimangono i momenti assieme; gli aneddoti, le risate, la maglia dell'Italia 1986 che mi hai autografato ('ma non ha il numero venti...'). Le parole belle, le parole buone. Il tuo 'mi dispiace' quando confessai che, a causa tua, persi una scommessa quando ero sicuro che, nella finale di Coppa contro il Porto l'avresti 'messa' e tu, in contropiede, centrasti il portiere. E ancora risate.

Io ti dico una cosa: finché saremo vivi noi, che su quel divano sgranavamo gli occhi ad ogni palla finita alle spalle del povero Valdir Peres (lo hai consolato, lassù?), sarai vivo anche tu. Anche quando ti raggiungerà un altro campione, permettendo ai professionisti del coccodrillo di riciclarsi, quando la polvere della commozione generale si appoggerà a terra, tu vivrai. Perché, e non offenderti, non avevi il fisico di Bettega, né la tecnica di Platini: ma quel mondiale lo vincesti tu, assieme al nostro mister ajellese che credette, e credette, e credette anche quando le falangi di colleghi, inferociti dal 'silenzio stampa', cercarono di affossarti, attribuendoti addirittura un flirt con Antonio Cabrini.

Oggi molti di loro stanno assieme a te, lassù. Spero ti chiedano scusa. Come faccio io, che non esultai (anzi!) quando segnasti la prima rete in bianconero (juventino) dopo il rientro in campionato, nel 1982.

Vivrai nei cuori e nella memoria di tutti noi. Non solo, non tanto per le reti ma per come sei stato. Ci lasci un grande insegnamento, che non è affatto poco.

E il rammarico di non poter brindare assieme a te alla fine dell'incubo pandemia.

Lo faremo con Alessandro. Diventerà, Ale, un fratello ancor di più di quanto non lo sia già. Ci vedremo, quando possibile. Non so se tratterremo le lacrime, tu riderai di noi una volta ancora e lo accetteremo.

Finisce, questo 2020, fra poche ore; inizia un altro anno. Come sarà, non lo sappiamo: per essere meglio del precedente, però, basterà molto poco.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 31 dicembre 2020 alle 20:36
Autore: Franco Canciani
vedi letture
Print