Come eravamo? Quanto eravamo belli? Quante soddisfazioni accumulate, invidie altrui causate, dominii in giro per l’Italia e, a volte, anche per l’Europa?

E come siamo arrivati qui, ad affrontare l’insoddisfazione e a tratti l’indifferenza, di un quinquennio di poche gioie e tante delusioni?

Dare un’unica chiave di lettura è miope. In Friuli siamo abituati ad avvitarci i piedi nel presente, ma pensare al futuro senza dimenticare chi siamo. Chi siamo stati.

Tanti tra noi hanno messo sul tavolo le impressioni ricavate da un campionato, questo, figlio del periodo precedente e di una rosa che, delle due l’una, o non s’impegna a sufficienza oppure proprio non può dare di più.

Tutte le opinioni sono frutto dell’amore, spassionato e (lo possiamo dire!) indipendente dal risultato sportivo, che da queste parti si nutre verso l’Udinese calcio. La società non può non saperlo. Lo sa: ed è per questo che riesco a spiegare un certo distacco fra le parti solo con la tutela dell’immagine dei calcianti, ormai divenuti quasi intoccabili dalle umili schiere dei supporter.

La verità è che la deriva che ha portato ad una fine 2019 così umile è composita e variopinta, anzi dipinta solo di grigio. Parla di sottovalutazione, di scelte a volte non oculate, di guide tecniche modeste le quali, a onor del vero, hanno avuto a che fare con rose via via meno idealizzabili.

Eravamo Bierhoff, Poggi e Amoroso; siamo stati Pizarro, Di Michele, De Sanctis (mi interessano poco le antipatie, parlo di qualità assoluta). Siamo diventati Di Natale, Maravilla, Pereyra.

Nomi che rendono le odierne squadre friulane automaticamente modeste.

Ci siamo raccontati mille volte quali ragioni (fra le altre) possano aver condotto a lottare per la sopravvivenza. Giova, alle volte, ripetercele.

Di Natale – per anni le stellari prestazioni del ragazzo napoletano hanno coperto mancanze, via via più sostanziali, della rosa. Le sue reti, mai banali; la sua personalità, il rispetto che ormai aveva ottenuto da compagni, avversari, arbitri hanno nascosto il fatto che, al netto delle sue trenta reti a stagione (e quante altre suggerite, provocate, facilitate) la squadra si stava intristendo con giocatori di spessore evidentemente inferiore. D’Agostino è diventato Guilherme; Guilherme è diventato Kums, Kums è diventato Jajalo. Sic.

Wyscout – ormai la tecnologia ha reso immediato lo scouting, automaticamente innalzando i prezzi al di sopra di quanto l’Udinese possa o voglia spendere. Passato è il tempo di chi inviava videocassette e di quelli bravi che guardavano, sceglievano, spesso indovinavano. Casualmente gente oggi accusata di incapacità da chi ha memoria corta.

La clonazione – il modello-Udinese è stato imitato a livello planetario. Dalle grandi formazioni, che ormai girano il mondo assicurandosi ragazzini a prezzi stratosferici; in Italia, in parte, anche dall’Atalanta che da almeno quattro decenni riforniva col vivaio le migliori formazioni nazionali, ed oggi gira il globo acquisendo giocatori fatti e finiti: sono arrivati Kessie, Gosens, Castaigne; è tornato Pasalic, si sono spese decine di milioni di euro per Zapata e Muriel. All’Udinese ormai restano poche occasioni per ‘rubare’ talenti all’avversaria di turno.

La guida tecnica – l’Udinese è tornata all’alba dell’era GPP, quando gli allenatori giravano come trottole: dal 1987 al 1998 sono stati una ventina gli avvicendamenti, alcuni clamorosi (Bigon lasciato a casa dopo aver salvato la squadra allo spareggio, a beneficio di Vicini cacciato dopo l’affronto di Napoli) altri comprensibili; con Zac, Spalletti e soprattutto Guidolin si pensava di aver trovato una certa tranquillità; da Strama a Gotti un’altra dozzina di variazioni in panca, segno di un’indecisione che viene, e si usa così in questo mondo dorato, addebitata all’anello più sacrificabile.

Il senso di appartenenza. Lo so: di questi tempi vale più un procuratore ben inserito che la maglia che s’indossa. I giocatori che, per amore di colori e città, rifiutano cambi di casacca si contano sulle dita di una mano. Dei bianchineri odierni (e di certo mi sbaglio) ben pochi paiono orgogliosi di giocare all’Udinese. Di chi la colpa, qualora (e di certo mi sbaglio) ciò corrisponda a verità? Come al solito sarà dei giornalisti, incapaci di riportare alle tifoserie i sentimenti espressi leopardianamente dai giocatori durante le interviste. Le quali, però, non a caso si definiscono ‘di rito’: non mi dite di amarci, mostratelo. Ogni fottutissima domenica (o sabato, mercoledì, lunedì…)

Lascio andare gli aspetti tecnici; le dormite in area, gli errori in serie di un improvvisamente imbrocchito Ekong, il modulo difensivo invariabile ‘n’importe quoi’, la sterilità offensiva che fa a pugni con la prolifica stagione dinataliana; l’allenatore che continua a professare (e gliene faccio una colpa) la poca voglia di continuare a svolgere quel ruolo, la dirigenza che cerca di convincermi che l’impegno è massimale (anche quando sembra l’Udinese tenga la testa sul ceppo, come scrivevamo solo lunedì passato). Li lascio andare: voglio solo pensare che oggi pomeriggio, contro una squadra commovente per come sta celebrando il compleanno della società, la presidenza onoraria del grande Giggirriva, un popolo straordinario che ci corrisponde così tanto, l’Udinese possa giocare al calcio. Perché il tempo ormai passa inesorabile.

Un poscritto: la redazione ha chiesto a tutti noi di comporre top, flop e soprattutto squadra del decennio e rete più bella: mi sono rifiutato.

Come direbbe il buon Giovanni Storti, ‘non ce la faccio. Troppi ricordi.’ Quelli che rendono la situazione attuale, sempre fastidiosa, a tratti insostenibile.

Sezione: Primo Piano / Data: Sab 21 dicembre 2019 alle 06:00
Autore: Franco Canciani
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