E' il momento di raccontare quanto accadde quel fatale 4 novembre 1997, quando, dopo aver eliminato i campioni polacchi del Widzew Lodz ribaltando lo 0-1 dell’andata con un rotondo 3-0 casalingo al primo turno, l’Udinese ospitò allo Stadio Friuli “i lancieri” dell’Ajax, con la necessità di recuperare la sconfitta per 1-0 rimediata all’Amsterdam Arena quindici giorni prima. Fare due gol senza subirne. Serviva una nuova impresa, considerando che gli olandesi, pur in fase calante e indeboliti per le importanti partenze, solo tre anni prima avevano vinto la Champions League contro il Milan di Capello, due anni avanti perso solo ai rigori il titolo nella finale di Roma contro la Juventus e l’anno precedente erano stati eliminati in semifinale sempre dai bianconeri torinesi. Era l’Ajax dei fratelli De Boer e di Litmanen, Van der Sar, Blind, Dani, Witschge e Oliseh con il santone danese Morten Olsen a dirigere l’orchestra. Credo di essere stato uno di pochi tifosi dell’Udinese che quella sera non furono sugli spalti del Friuli, pieno in ogni ordine di posti come non accadeva dai tempi in cui Zico deliziava la platea nei primi anni 80’; con una differenza: quei 42.000 presenti, tolta una sparuta rappresentanza di tifosi olandesi, erano tutti arrivati per spingere l’Udinese a coronare l’impresa e non anche per sostenere gli avversari di blasone come di solito avveniva e avviene tutt’oggi. Uno spettacolo nello spettacolo, con trentamila bandierine a ritmare l’inno della società friulana e le varie fasi della partita.
Un’atmosfera mai più rivista, a detta di chi c’era. Perché appunto, io non c’ero: mi ero imbarcato per Il Cairo proprio nella mattinata del 4 novembre, dove mi aspettavano 10 giorni di crociera sul Nilo con la famiglia, prenotati nel mese di agosto quando certo non mi potevo immaginare la storica e “drammatica” coincidenza. Rassegnato ad attendere le notizie sull’esito del match il giorno seguente, le speranze erano riposte sui servizi disponibili nella camera dell’Hilton sull’isola di Gezira. Speranze fortunatamente ben riposte perché la tv via satellite trasmetteva i canali RAI, dove in differita sarebbe stata trasmessa la partita con inizio alle ore 22,30 italiane, corrispondenti alle 23,30 ora locale; non stavo nella pelle, il tempo scorreva lentissimo ed il telefono era staccato per impedire che qualcuno potesse inviarmi dall’Italia un sms che vanificasse la decisione di “soffrire in diretta”.
Quell’infinita attesa e la sua tensione vennero “rotte” dall’immagine di Carlo Nesti che, dallo studio, con queste parole, anticipava l’avvio della differita: “E ora vi lascio alle grandi emozioni di Udinese-Ajax, partita da seguire fino al termine”. L’aria era sorridente, felice per un esito fausto e pertanto, personalissimamente, mi convinsi che avevamo vinto e passato il turno, magari con un gol nei minuti di recupero di un rocambolesco finale. E così non fui sorpreso più di tanto quando nel primo tempo l’Udinese aveva schiacciato i lancieri, infilandoli con il “gol di rapina” di Paolino Poggi prima e dopo con la splendida fucilata di Oliver Bierhoff nel sette della porta difesa da un immobile Van der Sar, a conclusione di una fulminea azione di rimessa tutta “di prima”. E così non imprecai contro tutti i santi del paradiso quando vidi Massimiliano Cappioli spedire malamente a lato una colossale occasione per chiudere il match già alla fine del primo tempo. Non era quella la “trama” anticipata da Nesti. E così continuai a guardare con sufficienza i miracoli di Van der Sar, che all’inizio del secondo tempo continuavano a negarci lo strameritato 3-0. E così seguii senza particolare apprensione la parte finale del match, quando l’Udinese iniziava a pagare la fatica per il grande sforzo compiuto fino a quel momento e l’Ajax si faceva vedere sempre più minaccioso dalle parti di Turci alla ricerca del gol che li avrebbe qualificati e che, puntualmente arrivò a soli nove minuti dal 90’, con una rasoiata da posizione angolata da parte del centravanti georgiano Shota Arveladze. Tutto previsto. Nesti l’aveva detto: partita dalle mille emozioni, da seguire fino alla fine. E così rimasi in attesa del gol che era scritto nel copione che si era fissato nella mente. In fiduciosa attesa. Quel gol non arrivò mai e quando l’arbitro fischiò la fine dopo 5 minuti di recupero rimasi pietrificato. Incredulo, come qualcuno che si accorge di aver inserito nel lettore il DVD sbagliato.
Era l’una e 30 del mattino al Cairo ed io non riuscivo a darmi pace, mi sembrava di vivere un incubo e, fissando il televisore con aria ebete, aspettavo che qualcuno mi svegliasse; quando piano piano ripresi pieno possesso delle mie facoltà e compresi bene ciò che era accaduto, un fiume d’imprecazioni lungo questo sì come il Nilo, si rovesciò prima abbondantemente su Carlo Nesti e solo molto dopo su Massimiliano Cappioli, Shota Arveladze ed Edwin Van der Sar. La rabbia e la delusione mi impedirono per qualche ora di addormentarmi, prima che la stanchezza e lo sfinimento nervoso mi facessero cadere in un sonno simile alla morte. Mi attendevano un volo per Luxor nel mattino e poi 10 giorni di navigazione per Assuan e poi un altro volo per Abu Simbel. Un vero e proprio Assassinio sul Nilo. Hercule Poirot non avrebbe avuto vita troppo facile per scoprire chi fosse il colpevole.
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