Ospite ai nostri microfoni Michele Antonutti, il Cigno di Colloredo, ha fatto una grandissima panoramica sulla sua carriera. Tra aneddoti, ricordi e curiosità il cestista, che ha chiuso con il baske giocato, ci ha fatto di nuovo immergere per circa un'ora nelle sue avventure.
Gli inizi di carriera alla Snaidero:
“Ho iniziato molto preso, oggi si legge di ragazzi giovani a 25/26 anni, una volta a 18 anni, per mentalità balcanica, o sei o non sei. Per loro devi smettere di essere bimbo. Guardate Doncic, a 20 anni già aveva fatto molto. A 14/15 anni fui acquistato e fece scalpore al tempo, perché era il primo acquisto di un giocatore di Udine dopo tanti anni, ci fu una bellissima presentazione all’hotel Astoria e sentii già la bella pressione di essere un giocatore di Udine. Primo compagno di camera fu Michele Mian, andai sotto la sua ala. Aveva regole molto rigide, era per il no televisione, leggeva, aveva orari precisi, amava la sua pipa. Io a 15 anni avevo esigenze diverse, volevo magari vedere i cartoni in tv, ci fu uno stacco importante tra bambino e uomo in soli due giorni. La consapevolezza di poter diventare professionista è arrivata presto, c’erano investimenti importanti da parte delle federazioni, ero in nazionale giovanile ma lo staff era praticamente lo stesso delle squadre di Serie A, non c’era il concetto quasi di giovanile, eravamo ragazzi giovani ma già nel giro della Serie A. Ho avuto la fortuna di avere Luigi Crosetti come allenatore, che mi ha messo l’idea che in estate si fanno i giocatori, in inverno le squadre. In estate bisognava lavorare molto. Nei miei disegni fin da piccolo c’era la pallacanestro e quindi mi chiedessero cosa avrei fatto se non avessi giocato a basket non saprei dirlo”.
L'All Star Game con la nazionale:
“Uno dei momenti più belli della mia carriera, c’era il meglio del nostro campionato con giocatori che hanno fatto carriere importanti. Ero appena andato via da Udine. Dovrò sempre ringraziare Edi. Quello che mi ha permesso di fare, mi disse ‘cigno prendi il volo, Udine non ha la forza di trattenerti, vai e fai la tua carriera’. Dopo sono andato a Montegranaro e in nazionale maggiore, non mi avesse lasciato andare non so se avrei fatto la stessa carriera, eravamo in A2 e le cose erano diverse”.
Compagno che ti ha impressionato?
“Nate Green alla Snaidero, ora fa l’arbitro in NBA. Era incredibile, arrivava dalla Fortitudo Bologna, era il classico americano atletismo puro. Allenato da Cesare Pacotto lo dovevo marcare, ogni volta era una fatica, poi chiaramente sapeva i miei difetti e ci giocava, con Jerome Allen che mi catechizzava subito. L’ho avuto come compagno da tanto giovane, era tanto bravo e arrivava da grandi campionati. In quegli anni lì il campionato italiano non era di passaggio ma di arrivo, dopo l’NBA c’erano quello italiano e forse quello spagnolo, arrivavano quindi giocatori che decidevano anche di fermarsi in Italia. Ho giocato con giocatori che vedevo fino al giorno prima in NBA”.
Il sogno NBA c’è mai stato?
“Quando giocavi in quel periodo in Italia o era l’NBA il sogno o non c’era altro. Facendo bene qua si poteva provare di là, in quel periodo lì c’erano grandi giocatori, avevamo vinto l’argento olimpico. Emozioni per l’NBA vere le ho avute in una tournee con l’Italia, c’erano Vitali, Datome, Belinelli, giocatori che ha fatto in carriera 20 anni di Serie A ad alto livello o NBA. Gli americani ci fanno giocare contro i college, diamo 30 punti a tutti, quindi viene chiesta qualche squadra buona per giocare nella tournee. Quindi iniziano a farci giocare contro università più importanti, anche quella in cui è cresciuto LeBron James. Lì ricordo che in una partita ci fu un occhio di Houston Rockets e Indiana Pacers, erano interessati ad alcune mie caratteristiche. Però quello che vedevano le franchige è che per noi sarebbe servito una crescita fisica, perché tecnicamente capivano che potevamo starci. Era il 2004 o 2005. Avrei scelto Houston perché c’era McGrady. Comunque era bella l’idea di aver avvicinato un mondo che sembrava normalissimo. Adesso è più immediato, l’NBA la vedi tutta. Vedere però ai miei tempi Michael Jordan era difficile, dovevo aspettare Space Jam”.
Giocatore preferito?
“Il mio giocatore preferito era della mia squadra preferita, ovvero i Bulls. Tanti tifavano Jordan, Pippen, mi dissero che non potevo avere la fisicità di un americano e il mio idolo è infatti Toni Kukoc, 2,06 metri. Quando tornavo a casa guardavo subito la Benetton Treviso da cui è partito, l’ho potuto vivere direttamente perché quando sono stato preso da Treviso chiesi al custode dove potevo sedermi. Mi disse di andare a sedermi in un posto e mi dissero che avevo scelto causalmente il posto di Toni Kukoc. Il sogno del basket mi ha fatto vivere anche questo ma non l’ho mai potuto conoscere di persona.
Ci racconti un'esperienza che ti ha lasciato qualcosa di diverso?
"Ora che mi sono ritirato ho fatto tante interviste e un po’ in tutti i posti ho vissuto qualcosa di speciale. Giocare a Casera, in cui è stato vinto l’unico Scudetto del sud, quindi la regina del sud, è incredibile, c’è una grande cultura della pallacanestro, ti raccontano sottigliezze, cose incredibili. Ho visto il video ricordo sui fratelli Esposito, che sono stati anche a Udine, io quelle cose le ho vissute, essere stati parte di una grande storia, che speriamo riparta presto, è emozionante. Chiaro che con Reggio è stato tutto, abbiamo creato le basi per la Reggio Emilia di adesso. A Pistoia ho registrato i 200 punti, ci sono tanti bei ricordi in tanti posti.
Un coach importante nella carrierca da giovane?
“Teo Alibegovic, insieme al suo assistente, mi insegnò l’arte del sacrificio, che non era una fatica, era un’arte. Ci si allenava tanto, appena eri stanco ti dicevano che di là si faceva ancora di più. Si andava a scuola, si tornava, si studiava e poi ci si allenava, erano anni tosti, belli. A 19 anni Pancotto mi disse che dovevo smettere di essere un Peter Pan, dovevo fare qualcosa di più rispetto agli applausi. L’anno prima bastava che io entrassi per avere gli applausi, l’anno dopo bisognava fare qualcosa in più”.
L'allenatore che ha segnato qualcosa nella tua avventura a Udine?
“Boniciolli è stato un allenatore di cultura e aneddoti sopraffini, si parlava di tutte le nostre esperienze, di quando abbiamo giocato uno contro l’altro”.
Kaukenas:
“Lui arrivava dal Real Madrid, arriva nel periodo dopo Natale. Gli anedotti sono incredibili. Si presenta dicendomi che prima di arrivare in Italia era alla cena di Natale con Florentino Perez e Cristiano Ronaldo e un mese e mezzo dopo era con me. Però l’umiltà di questo giocatore era incredibile. Entra nello spogliatoio, gli avevano detto che ero il capitano, si presenta chiedendomi dove poteva sedersi, dove voleva gli dissi ovviamente. Però aveva grandissimo rispetto nonostante la grande esperienza, aveva un grandissimo senso dello spogliatoio. Ho scoperto che il lunedì, quando gli chiedevo di andare a cena e mi diceva che non poteva, si allenava invece, faceva triathlon. Non potevo crederci. La parola è ossessione, a quel punto della carriera i soldi non gli importavano più, ma voleva sempre dimostrare il suo valore a tutti”.
Il record di 5 triple:
“C’è stato un periodo in cui in casa tirato con più del 70% da 3. Avevo Cinciarini a farmi gli assist. Quell’anno lì sono finito tra i migliori tiratori d’Europa, ho ancora la foto della Gazzetta con le classifiche.
Il ritorno a Udine:
“Eravamo pronti tutti e due, serviva quello, avevo da completare un percorso, sogni da inseguire. Quando Udine cominciava a essere interessante ero a Biella e giocavamo contro Udine, gioco sempre da professionista e mi è dispiaciuto ovviamente tantissimo doverla eliminare, però fa parte del film della vita. A me interessava in primis che ci fosse mentalità, ovvero pensare da grande e l’incastro è stato perfetto. Poi chiaramente il #iorestoacasa è un’altra particolarità della carriera, pensavo di tornare a Udine trovando il Carnera sempre pieno perché si era riformato un seguito importante. Fu un anno incredibile, eravamo fortissimi e c’era solo Ravenna in quel periodo come rivale vera, eravamo pronti, lo dissi ai ragazzi ‘se buttiamo quest’anno siamo dei matti’, poi però si è fermato tutto ed era l’anno buono. Sapevo che negli anni precedenti era durissima, quello era l’anno che capita a volte in cui sei veramente la più forte. C’erano giocatori importanti, Luca Vitali mi disse che Beverly ci avrebbe fatto divertire con le sue schiacciate e il suo atletismo e Udine ha un po’ l’ossessione dell’americano ben strutturato sotto canestro. Avevamo giocatori d’alto livello, il rinforzo fu Strautins che ha giocato poi in A, nazionale lettone. Ma tutte le squadre da quell’anno lì in poi sono state forti”.
La Coppa Italia:
“Gli abbracci, tante speranze, Udine dal 1976 non vinceva nulla. Quando ero piccolo dicevo sempre che volevo giocare a basket e portare una coppa a Udine, ridevano tutti, invece l’abbiamo vinta ed è stato bellissimo, siamo ancora tutti in contatto e ci sentiamo. Nessuno dice che non tornerebbe a Udine”.
La finale con Napoli:
“Avevamo tanti giocatori da far sbocciare e che ci riuscirono, giocavamo bene con tutte, noi come rinforzo prendiamo Mian, ottimo giocatore. Napoli prese Burns, un giocatore illegale, giocava da italiano quindi, un extra slot, fu durissima, quando abbiamo giocato contro di loro ci siamo accorti subito che così era difficile, senza Burns forse sarebbe però andata diversamente”.
Quella finale con Verona e il tiro di Anderson:
“La sfioro, se si rivede c’è un errore difensivo, le due guardie non comunicano, mi butto su Anderson per provare, tira anche da un metro indietro perché se ne accorge, ma è stato bravissimo lui. Andare sul 2-0 avrebbe cambiato tanto perché anche perdendo le due a Verona si tornava poi al Carnera per la quinta. Avevamo perso solo 5 partite, un record”.
Un rammarico aver smesso prima di poter riportare Udine in A1?
“Ci siamo andati quasi vicino, la cosa mi ha fatto capire che la vita non è una favola, mi ha regalato tante cose belle. Volevo salire in A1 e smettere, ma la vita mi ha insegnato a essere uomo, mi ha dato ricordi che mi hanno fatto crescere più che se avessi vinto. Udine ora ha mentalità, è costruita”.
Boniciolli e il post Verona:
“Matteo è uno che dà sempre tutto, abbiamo preparato quell’estate tutto per provare la risalita, cambiando veramente tanto. Forse siamo andati a prendere un po’ di identità, avevamo preso giocatori più forti sulla carta, ma non c’era la giusta identità, forse paradossalmente era meglio non cambiare nulla. Poi noi friulani talvolta siamo un po’ esterofili, se arriva da fuori è più forte, poi chissà se sia stata la cosa giusta fare così tanti cambiamenti”.
La serata del ritiro della maglia:
“All’Antonutti giocatore ha lasciato qualcosa di identificativo, che va oltre i numeri, l’idea che uno di Udine può farcela. La corsa verso Edi? Vederlo commosso è emozionante, un tributo bellissimo, dopo che ha lasciato forse non è stato onorato per quanto ha fatto, in quel momento lì c’è stato il giusto ricordo”.
Fallimento Snaidero:
“Quando chiuse pensai che Udine non ci sarebbe mai più stata, il mio sogno era rifare la squadra se non fosse arrivato nessuno. Il desiderio di giocare in mezzo a chi hai conosciuto nella tua vita è qualcosa di unico, ti identifico e ti fa sentire vivo, lo sport senza emozioni non è nulla. Ogni tanto quando passo in bicicletta vedo maglie dell’Apu, che mi chiama o mi dice ‘guarda che diventerò più forte di te’, io così ho già vinto. Qui ad Udine spero che un giorno qualcuno diventi più forte di me.
Quando hai capito che era il momento di dire basta?
“Il basket mi ha dato tantissimo e io voglio ridare tanto, le divise di Apu Udine e Snaidero meritavano il rispetto che mi hanno dato e che hanno dato e per quello che ho dato. Meglio chiudere un anno prima che dopo, bisogna ricordarsi che intanto non è una favola, magari nell’ultimo anno ti procuri un infortunio grave, a 38 anni magari ti fermi e chiudi da fermo. Ogni tanto vedo giocatori con carriere incredibili che continuano tanto e mi fa magari un pochino di tristezza perché ricordi cosa faceva prima, preferisco che mi dicano che potevo fare ancora un anno. Me lo hanno detto anche gli arbitri prima della partita contro Rimini”.
Gli ultimi anni:
“Mi era chiesto non solo di giocare, ma di dare anche qualcosa di extra i compagni, uno sforzo che mi ha consumato anche molto, bisognava fare un passo indietro e farne uno verso la squadra”.
Il post carriera da giocatore:
“La mia figura ormai c’è un po’ tutti gli sport, ormai dietro a una squadra c’è un’azienda e spesso non viene raccontato cosa c’è dietro. La parte della comunicazione su cosa sia la pallacanestro, cosa serve ai giovani, è una parte fondamentale. La mia veste è bella, si vive un’azienda di grandi professionisti. Soffriamo assieme d è bello mettersi a disposizione”.
Mai avuta la tentazione di diventare coach?
“Io studio e mi preparo per diventare dirigente a tutti gli effetti nella direzione sportiva, nel fare da general manager. Ho la mia azienda, i miei camp, vivere una società professionista fa crescere molto. La parte dell’allenatore invece non mi è mai interessata, mi è sempre interessato capire di più cosa bisogna dare a un giocatore e come far crescere una società, quello che ruota più intorno all’allenatore più che l’allenatore in sé”.
Un ricordo che ti ha emozionato di più post ritiro?
"Tutti quelli riferiti a ciò che accadeva fuori dal campo. Magari fuori dal campo facevo qualche tiro con dei bambini e poi da grande mi hanno mandato le foto di quando avevamo fatto qualche tiro assieme, tutte quelle foto e quei ricordi rimarranno sempre. Anche i camp giovanili è un voler ridare qualcosa al basket, poi magari mi dicono che sono andati a provare tra i professionisti, in nazionale giovanile... Un nuovo Antonutti? Mi è stato detto che non ci potrà più essere, anche perché 13 anni in una squadra non li farà mai nessuno, iniziare già dai 16 anni, difficile. Lo sport è cambiato, una volta si viveva anche di più lo sport, i Totti e i Del Piero però sono un'idea che non c'è più".
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