Gigi Delneri ha portato ossigeno e aria fresca in casa Udinese. Il tecnico dei bianconeri ha ripercorso l'intera sua carriera tramite una lunga intervista al Messaggero Veneto, partendo dalla Spal, sua prima squadra professionista.

Delneri, la sua prima squadra da professionista è stata la Spal. Da lì sono partiti anche Capello e Reja...
"Negli anni Sessanta la Spal aveva osservatori importanti da queste parti. Oltre a me c’erano altri ragazzi friulani: Tonetti, Tirelli, Casarsa, Musiello. Fui pescato dagli Allievi dell’Aquileia. Il ruolo? Sempre centrocampista, avevo le qualità solo per quel ruolo".

La seconda tappa della sua carriera di calciatore è a sud, a Foggia.
"Quello è stato un bivio importante per me. Dovevo decidere se fare il professionista o ... altro. Avevo avuto una mezza discussione con il presidente della Spal Mazza, persona fantastica e mio padre putativo calcisticamente parlando e dal quale ho imparato a comportarmi. A Foggia si era infortunato il regista Garzelli e mi chiamarono in prova per un mese. L’allenatore era Lauro Toneatto, friulano di Flambro. Vincemmo il campionato di B".

Lei da calciatore ha vinto tre tornei cadetti. Quello più stampato nella sua memoria è quello di Udine?
"Inevitabile. Per come è stato costruito e per come si è sviluppato nel corso della stagione è stato un anno molto particolare. Si creò una chimica unica tra l’allenatore, la squadra e tutto l’ambiente. Il lunedì e il giovedì noi giocatori andavamo a cena con le mogli, inevitabile che poi alla domenica si creasse in campo una sorta di mutuo soccorso efficace. Quando decidevamo di vincere la partita la vincevamo. C’era il nostro massaggiatore Franco Casarsa, la segretaria Daniela che è ancora qui oggi. Vi dirò di più: quella squadra a Carnevale andava in giro per Udine vestita in maschera. Qualcosa di impensabile ai giorni nostri".

Come è nato il passaggio da calciatore ad allenatore?
"Smisi di giocare all’Opitergina e mi fermai. Avevo le figlie in età da scuola superiore e quindi non era il caso di allontanarle da casa. Ci pensai bene prima di buttarmi ancora nel calcio con un altro ruolo. Cominciai da Gorizia, ma poi me ne andati a Partinico in Interregionale a mille chilometri da casa".

Alla Pro Gorizia il presidente era Pozzo. Giancarlo, non Gianpaolo...
"Un presidente amico, mi chiamava “trainer” non mister. La nostra giornata cominciava in ufficio alle 8.15 del mattino. Persona di un’intelligenza superiore, era un innovatore. E infatti in occasione della gara con il Rovigo riuscì a portare 5 mila persone allo stadio in una città dalla tradizione “baskettara”".

Dopo Pro Gorizia e Partinico è cominciata la gavetta in giro per l’Italia firmando sempre contratti annuali. Perché?
"Una questione di meritocrazia. Il rinnovo volevo guadagnarmelo sul campo. E poi i contratti si strappano comunque spesso e volentieri".

Nell’estate del ’98 lei andò ad allenare l’Empoli dove non cominciò nemmeno la stagione. Perché?
"Diciamo che la diplomazia non è mai stata il mio forte. Il presidente Corsi aveva idee diverse dalle mie, erano abituati a metodologie di lavoro diverse. Anche a Terni non finii la stagione. Nella negatività anche quelle sono state esperienza utili".

Nell’estate del 2000 nasce il miracolo Chievo.
"Il ds Sartori era stato mio compagno di squadra alla Sampdoria. A gennaio cominciò a mandarmi i video delle partite. Ricordo una vittoria a Terni per 3-0. Io gli dicevo: “Giovanni, non avete bisogno dell’allenatore, giocate così bene”. Invece a fine stagione mi incontrai con lui e il presidente Campedelli. Costruimmo una squadra che puntasse a una salvezza tranquilla prendendo elementi che conoscevamo: Corradi, Barone, Luciano. Si creò una alchimia di gioco che ci portò alla promozione in A".

Corradi ha detto: “Se il mister ci diceva una cosa noi la facevamo senza discutere”. La stessa frase usata da Fanesi, suo compagno all’Udinese, riferendosi a mister Giacomini.
"Un allenatore deve dare sicurezze ed essere credibile agli occhi dei giocatori, in un secondo momento vengono l’aspetto tecnico e quello tattico. Dai miei allenatori ho appreso molto nella gestione del gruppo".

Lei preferisce dire una cattiva verità o una buona bugia ai giocatori?
"Una cattiva verità. Che poi è la realtà. Se resti nel limbo non va bene. Una decisione è una decisione e va rispettata, l’importante è dire le cose in maniera corretta".

Torniamo al Chievo che arrivò in Europa?
"Qualcosa di unico e irripetibile. Una vera e propria favola: stiamo parlando di un borgo di Verona che per tre mesi restò in testa alla serie A. Tre mesi, non una giornata".

Quattro anni al Chievo, poi la chiamata del Porto. Finì come a Empoli dopo un mese...
"Il grosso della squadra arrivò al termine del ritiro perché era reduce dagli Europei. In rosa avevo dei giovani come Pepe, Quaresma e Ricardo Costa. Per me era necessario un ricambio. Io non mi adattai in maniera veloce, ma in quella stagione poi il Porto arrivò sesto e cambiò parecchi allenatori".

Nello stesso anno allenò la Roma.
"Davanti schieravo Totti, Cassano, Montella e Mancini. Segnarono 60 gol e posso solo ringraziarli. I problemi erano in difesa. Con me esordirono De Martino, Scurto, Corvia. Mi dimisi a marzo quando ero sesto, mica ultimo e commisi un errore che oggi non rifarei".

Nel 2006 arriva la chiamata di Zamparini. Non ha funzionato...
"Lui è così. Gli piace l’osservazione. Di calcio ne capisce, ma il pallone non è matematica, qualcosa si sbaglia sempre. È la prestazione che stabilisce se sei bravo o meno, non il risultato. Comunque con lui a cena andrei sempre".

Il ritorno al Chievo è contraddistinto dalla retrocessione. Una scelta che rifarebbe?
"Assolutamente sì. Subentrai alla settima giornata e la squadra aveva un punto. Chiudemmo a quota 39. Sbagliammo solo la gara in casa con il Messina".

Il biennio all’Atalanta è caratterizzato da ottimi risultati. Se ne andò perché non c’era la possibilità di fare il salto di qualità?
"Il presidente Ruggeri cominciò ad avere problemi di salute e io non avevo un rapporto idilliaco con chi operava in società. Doni? Un cavallo di razza bello da allenare. Un capitano vero, di spessore. Feci esordire tanti giovani: Consigli, Bonaventura, Zaza. E Gabbiadini cominciò ad allenarsi in prima squadra".

Il punto più alto della sua carriera è quello alla Sampdoria. Quarto posto, qualificazione Champions e 41 punti raccolti nel girone di ritorno, un ritmo da scudetto...
"Avremmo potuto lottare per il titolo quella stagione se non avessimo avuto un leggero calo a metà andata".

E se Cassano non avesse fatto le bizze, vero?
"Non lo feci giocare per cinque partite, la prima qui a Udine. Le vincemmo tutte. Avessi perso al Friuli sarei stato esonerato. La squadra guadagnò autostima e lui si mise a fare le cose giuste portandoci in Champions. Un allenatore deve comportarsi così: calcisticicamente deve “morire” come vuole lui non come dicono gli altri".

Cassano, Totti, Del Piero. Lei li ha allenati tutti. Qual è il migliore?
"Impossibile fare una classifica. Totti poteva fare qualsiasi ruolo, Del Piero era un leader tecnico e di personalità. Cassano da prima punta sarebbe stato molto più decisivo. In area come lui ne ho visti pochi".

Forse Di Natale che stava per allenare alla Juve. A proposito, come fu l’esperienza a Torino?
"A posteriori forse fu un errore andarci visto che era un anno di transizione. Ma alla Juve non si può dire di no. A gennaio ero terzo, in linea con gli obiettivi. Poi si infortunò la coppia d’attacco Quagliarella-Iaquinta".

Dopo quell’esperienza nasce la storia di Delneri bollito...
"Un luogo comune. Il calcio se lo guidi ti mantiene vivo attraverso la passione e le idee. Gasperini all’Inter fu bocciato, ma poi al Genoa e adesso all’Atalanta sta facendo vedere un calcio d’alto livello".

Quella tra lei e l’Udinese è stata una lunga rincorsa...
"Cominciata due anni fa".

Perché arrivò Stramaccioni e non lei?
"Non erano i tempi. Per incontrarsi bisogna essere in due e in quel momento io non avevo la giusta serenità".

E stavolta invece?
"Innanzitutto c’era la mia voglia di ricominciare. E poi, vedendo l’Udinese in tv, avevo intuito che c’era una squadra di qualità e con un buon potenziale".

Dall’esterno si ha la sensazione che lei senta questa avventura in maniera particolare. Corretto?
"Io sono friulano. L’altro giorno dopo 30 anni sono tornato in mezzo al campo per fare la foto con la squadra. Non accadeva da quando ero giocatore dell’Udinese. Mi ha fatto un bellissimo effetto. Si dice che nessuno è profeta in patria. Sarà, ma io cerco di trasmettere alla squadra i valori di questa terra: il sacrificio, il lavoro. Sono qualità che poi dobbiamo mettere in campo".

Delneri ha sorpreso anche mediaticamente con lo slogan “andiamo a sgarfare”...
"E pensare che a casa mi dicono che non so essere mediatico. É stata una frase uscita spontaneamente, volevo far capire quello che serve. Era la verità e sono stato assolutamente me stesso".

Da mesi gira voce che l’Udinese è sul punto di essere venduta. La sua sensazione dall’interno?
"L’esatto contrario. Questa è una società in netta crescita. Sono rimasto sbalordito per quello che ho trovato. Da avversario conoscevo solo la sala stampa e gli uffici della sede, ho trovato strutture per gli allenamenti, campi e palestre di prim’ordine. Qui siamo all’avanguardia e proiettati nel futuro".

I giovani sono sinonimo di grandi potenzalità, ma anche di discontinuità.Chi, magari anche che finora non ha giocato, l’ha colpita?
"Io vedo una qualità generale buona. Essendo stranieri i ragazzi devono capire in che tipo di calcio sono arrivati: serve attenzione, specificità del ruolo, sacrificio. Platini e Zidane, non due qualunque, ci misero un po’ per capirlo. Diamo tempo ai nostri ragazzi".

De Paul ha mezzi tecnici importanti ma...
"Deve buttare via quelle paure calcistiche che non lo fanno decidere subito la giocata. Fisicamente può fare il tornante, in mezzo troverebbe troppo traffico".

Peñaranda è arrivato con l’atteggiamento sbagliato...
"Glielo faremo cambiare. Ho parlato a lungo con lui".

Il guaio è che dietro di lui c’è il procuratore che soffia e alimenta la polemica. Gli agenti sono la parte peggiore del calcio. Concorda?
"Io rispondo che un allenatore deve badare ad avere un buon rapporto con i giocatori".

Nel calcio di oggi Rivera sarebbe sempre Rivera?
"Sì. A quei tempi i giocatori erano meno tutelati, c’era la marcatura a uomo e ti menavano. Ricordo un Milan-Foggia in cui giocò sempre, dico sempre, di prima".

E Delneri?
"Era lento, ma aveva velocità di pensiero e vedeva il gioco prima degli altri".

Kums può essere il Delneri dell’Udinese di oggi?
"Lui ha anche altre qualità, può permettersi di portare palla e tentare il dribbling".

Di Natale, infine: vi siete sfiorati a Empoli, alla Juventus e all’Udinese...
"Era destino. Sei anni fa stava già sull’autostrada per Torino, poi all’ultimo momento cambiò idea. Vinse l’affetto che aveva per il Friuli e io lo capisco. Non credo sarebbe cambiata la mia storia alla Juve, è cambiata sicuramente quella dell’Udinese. E da tifoso ne sono felice".

Le è capitato spesso di arrivare nel posto giusto al momento sbagliato: alla Roma, alla Juve...
"Ma non al Chievo. È come quando vinci alla lotteria: se ti fermi all’autogrill prima o a quello successivo non acquisti il biglietto milionario. Ma sono contento così".

Sezione: Primo Piano / Data: Dom 13 novembre 2016 alle 10:00
Autore: Francesco Digilio / Twitter: @FDigilio
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