Maxi Lopez si è conquistato a suon di ottime prestazioni il posto da titolare  a Udine, dopo alcune stagioni non proprio felicissime a Torino, anche a causa di un rapporto mai sbocciato con il tecnico dei granata. L'argentino,reduce dalla doppietta alla Sampdoria,  si è  raccontato a cuore aperto ai microfoni del Messaggero Veneto. Di seguito alcuni stralci della sua lunga intervista:

Maxi Lopez, ci racconta le sue origini?

«Sono nato a Buenos Aires, quartiere Palermo in pieno centro città con un milione di abitanti. Mio padre Riccardo, che ho perso quando avevo 12 anni, ha giocato a calcio ma non a livello professionistico. Faceva il ragioniere e portava a casa la pagnotta per la famiglia.Eravamo in sei: mia mamma Maria, mia sorella Marcella e i fratelli Jonathan ed Ezequiel. Solo Jonathan ha provato a intraprendere la carriera del calciatore: ha giocato nella seconda squadra del Maiorca quando c’ero anch’io».

Com’è stata la sua infanzia?

«Come quella di tanti altri bambini. A pallone giocavo nella piazzetta davanti a casa. A cinque anni sono entrato al River Plate dove ho fatto tutta la trafila sia nel settore giovanile che a scuola. Mi manca un anno per il diploma. Non escludo di prendermelo per una soddisfazione personale quando avrò smesso di giocare».

Al River è stato tre stagioni. Il momento indimenticabile?

«La miglior partita della mia carriera rimane la vittoria nel derby con il Boca sul loro campo: 1-0 gol di Cavenaghi. Sorpassammo i nostri avversari in classifica e vincemmo il titolo. Chiudere la carriera al River? Sarebbe bello, ma mi allontanerei troppo dai miei figli».

Nel 2005 arriva il trasferimento al Barcellona per sostituire lo svedese Larsson, infortunato.

«Nel Barça ho avuto un infortunio di 3-4 mesi che mi ha frenato. Messi? Già a 16 anni faceva la differenza contro gente di 28. Ricordo che suo papà non lo lasciava mai solo e allora, dopo gli allenamenti, era sempre a casa mia: si passava il tempo tra tornei di play station e barbecue. L’ho rivisto a distanza di tanti anni a marzo in occasione di Juve-Barcellona ed è ancora il ragazzo umile di inizio carriera».

Quel Barcellona venne a Udine a giocare la Champions... 

«Non entrai in campo. Ma ricordo la passeggiata in centro della sera prima: faceva tanto freddo».

L’esordio in Italia arriva il 31 gennaio 2010: Catania-Udinese 1-1. In quella stagione gioca 17 partite e segna 11 gol. 

«Fisicamente ero pronto, arrivavo da una stagione di 55 gare disputata in Brasile e che era finita a dicembre. In realtà io dovevo andare alla Lazio, era quasi tutto fatto. Mentre stavo per riprendere l’aereo e tornare all’FK Mosca, proprietario del mio cartellino, mi chiamò Lo Monaco e andai al Catania».

Nel Milan ha segnato il suo unico gol all’Udinese. Ci racconta la strana storia del suo trasferimento in rossonero?

«Avevo già firmato un quadriennale per il Fulham, poi Lo Monaco fece saltare tutto e mi disse di andare al Milan. Misi nero su bianco e mi fecero aspettare un paio di giorni che poi sono diventati una settimana. Il Milan doveva vendere Pato, prendere Tevez e annunciare il nostro ingaggio insieme. Alla fine arrivai solo io».


Parliamo della foto di quattro anni fa che la ritrae sovrappeso in vacanza. Aveva un po’ mollato?

«No, semplicemente ero in ferie nella mia casa di Ibiza e quando sono laggiù mi lascio un po’ andare. Adesso di meno perchè più gli anni passano e più si fa fatica a recuperare».

Cosa le è mancato per avere continuità ad alto livello?



«In un calciatore conta tanto la testa. Al di là della scelta che ritengo comunque felice, andare in Russia mi ha un po’ penalizzato. Sono uscito dal calcio che più conta e ho dovuto ricominciare da capo a 25 anni a Catania».

Titolare fisso nelle giovanili dell’Argentina, ha segnato il gol decisivo nella finale dei Panamericani con il Brasile nel 2003, ma non ha mai giocato in prima squadra. Rimpianti? 

«No, io ci ho provato, ma non è arrivata l’opportunità. Si vede che doveva andare così».

Il suo idolo da ragazzino?

«Batistuta. Credo sia stato un punto di riferimento per tanti della nostra generazione».

Qual è l’allenatore che ha sfruttato meglio le sue caratteristiche?

«Pekerman e Ugo Tacalli che ho avuto nelle giovanili dell’Argentina. Quanti campioni hanno scovato...».

Dove e come nasce uno spogliatoio compatto?

«Dalla disponibilità e dalla fame dei singoli. Dalla capacità del mister di creare un legame forte con i suoi giocatori».

Contro la Samp due gol senza esultare? Ma non è esagerato considerato che lei non ha giocato tanti anni in blucerchiato?

«Quando sono tornato da avversario con Catania, Chievo e Torino, Marassi mi ha sempre accolto con un grande applauso. Quella era ancora la Sampdoria di Garrone padre, una società forte con tifosi pazzeschi. A me è sembrato giusto fare così».

Adesso le mancano otto gol per conquistarsi l’automatico rinnovo del contratto. Ma se ne fa nove e tutti decisivi, la conferma non sarebbe ugualmente meritata? 

«Io veramente conto di farne più di dieci, vorrei superare il mio record italiano (undici ndr.)».

Quanto la disturba la mediaticità sul suo conto complice la separazione dalla sua ex moglie Wanda Nara ora compagna di Icardi?

«Io non ho mai dato troppo peso a questa faccenda».


Lei non ama parlare di questa sua vicenda personale, ma gli altri lo fanno. Maradona, per esempio, si è schierato dalla sua parte contro Icardi. 

«Maradona è uno che non ha filtri, dice quello che pensa. E non parla perché è amico di questo o quello. Io l’ho incontrato solo una volta di persona qualche anno fa per una partita di beneficenza».

Il suo soprannome è “Gallina d’oro”. Come è nato? 
«Da una mia esultanza particolare dopo un gol a Barcellona. E siccome il simbolo del River è la Gallina, ecco il soprannome. Il “d’oro” non so se è stato aggiunto perché ho i capelli biondi, diciamo che è stata una ...licenza poetica».

Sezione: Primo Piano / Data: Lun 09 ottobre 2017 alle 11:00
Autore: Jessy Specogna
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