Sei un ragazzino; a malapena arrivi al livello del Dall’Ara, entri che la gara è iniziata, poi ci pensano Causio e Manuel a renderti quella visione infame uno scorcio di paradiso.

Sei un ragazzo, sotto la pioggia assisti al doppio scambio di Zico che insacca uno delle cinque reti alla Lazio.

Sei un giovane, al Friuli i colori di Spagna, Uruguay e Corea ti riempiono il cuore.

Sei adulto, e Totò… Senza commenti.

Chiudi gli occhi, hai cinquant’anni. E la cosa non ti piace.

Ed allora pensi, se valga o meno la pena di prendersela tanto per un gioco: In fondo, te lo ricordi: quel giorno di febbraio del 1973 quando nonno Giordano ti portò per la prima volta al Moretti, glorioso, contro i viola del Legnano. A te piacevano le maglie degli altri, ‘ma i nostri sono bianchi e neri’ disse nonno. Non si transige. Finì 0-0 e scelsi: anzi fui scelto. Nigrum et album in aeterno, in saeculasaeculorum e amen, blasfemissimo testa di calcio fin da quando di anni ne avevo appena quattro.

Mi dicono che non era la mia vera prima volta, quella cosciente sì. E in fondo, me la ricordo.

Chissene, in fondo. Gente di passaggio, ai giorni nostri ed è giusto così. Poco di leggendario, qualche buona individualità, gente che se ne andrà in cerca di fortuna altrove ed è giusto così. Tanti che parlano, e questo è meraviglioso: nell’era dell’orso, mica del cinghiale bianco in cui la programmazione televisiva prepondera ogni altro aspetto, amo alla follia chi di calcio parla, chi si accalora, meno chi insulta. 

Il mio atarassico proposito è difficile da mantenere; mi dico che devo accettare la beatificazione di Nicola, con appositi groupiesche tengono una ìmpari contabilità con il mio amatissimo don Julio; mi dicono che questo faccia i miracoli con due tribunari del Watford, coll’ex riserva di Danilo al Bieffecì e via andare, ma nessuno che rammenti come Velàzquez i vari Okaka, Sandro, Teo, DeMaio, Musso non li aveva mica, o se li aveva erano convalescenti o ammalati.

Pochissimi che accettino la fortuna, audaces iuvat!, che domenica ha assistito i bianchineri una volta tanto; mi perdoni Sinisa, ma iniziare la gara con quel piglio, non segnare, subire un rigore autoprovocato è un bel mix di dabbenaggine ed autolesionismo. Capitò all’Udinese ad Empoli, tappa finale dell’avventura salmantina, quando la sorte fu persin peggiore, 31 tiri di cui solamente uno fruttuoso.

Il mio atarassico proposito è difficile da mantenere, ma non provo quel sentimento profondo che sta dividendo dirigenza e società da certa tifoseria: ho pregato per qualche scampolo di bel calcio, forse arriverà. L’anno prossimo. Tanto c’ero con Brunello, vieppiù con Sansòn e Mazza, sono qui con la famiglia Pozzo, sarò ancora qui (ingravescentem aetate permettendo) con i successori, se e quando ce ne dovessero esserci. Attendo senza fregola. In media negli ultimi anni mi sono divertito, mi piacerebbe tanto continuare.

Il mio atarassico proposito è difficile da mantenere, specie con i miei amatissimi tifosi: quelli che mi vogliono, bontà loro, bene e quelli che non mancano occasione per mettermi in croce: anzi, provo ancor più affetto per questi ultimi, sapendo benissimo che il loro virtualissimo avatar non li corrisponde, ché non si perderebbe occasione per spartire un giro di buoni bicchieri dovessimo incontrarci.

Vi chiederete cosa mi abbia spinto a scrivere questo pezzo: beh, l’indovinello veronese (se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et nigro semen seminaba). Sono un mediocre miniatore di parole, che allinea questi semini neri su un prato bianco come fossero un chirurgico filo da sutura, nel mio caso per un’anima mai serena.

Che si serena, parlando di sport: pensando che oggi l’amico Davide Micalich mi raggiunge, ma solo per una dozzina di giorni dopodiché gli sarò ancora avanti di uno. Ripensando al ragazzo ventisettenne incontrato ieri al palazzo, onesto nell’ammettere di un carattere difficile ed onesto io nell’essergli vicino, simili in quella scintilla che si accende troppo facilmente, così difficile da guidare verso il polo negativo come uno ione positivo deve fare. E sì, quando gli parlerò vis-à-vis qualche domanda sul passato gliela farò.

Tengo all’Udinese; tengo ai colleghi, più esperti di me, quelli che leggo da anni con cui posso non essere d’accordo e quelli più giovani e freschi, da cui posso solo imparare ed aggiornarmi. Forse l’unico giornalista da bar sono io, ma lì, al bar, lo sport assume connotati epici, irreali, leggendari e non necessariamente deteriori rispetto ad alcune redazioni. Leggo, rileggo spesso l’opera omnia dei tre miei Gianni tutelari (Brera, Clerici e Mura in rigoroso ordine alfabetico) cui invidio il lessico, lo stile, l’ampiezza e la conoscenza. Ma anche al bar, credetemi, si può stare bene. Perché oggi di Gianni non ce ne sono, o forse si chiamano Maurizio e tengono alla Juventus.

Guardo con un sorriso alla cosiddetta ‘pace’ di sabato scorso fra tifosi e società. Ho la mia idea sul perché fosse presente proprio quel membro della famiglia: non credo che le teste siano indipendenti, semplicemente ha forse più dimestichezza con certi appuntamenti mediatici, senza difformi opinioni, né diminutio o accretio alcuna. Sorriso perché chissene, in fondo: finiamola col prendere il calcio troppo sul serio o si rischia di crederci veramente.

L’Udinese, a prescindere da tutto e con un discreto lavoro condotto da Davide Nicola, rimarrà in questa categoria. Penso che al piemontese rinnoveranno il contratto: in fondo sta tenendo fede a quanto promesso e premesso, salvare la squadra. Un po’ come fece il contraltare anni ’90 dell’ex-Livorno e Crotone, quel NedoSonetti che portò l’Udinese in serie A nel 1989 praticando un gioco sparagnino e concedendo zero allo spettacolo. La seguimmo dappertutto, anche a Licata e gli occhiali, intesi come risultato, si sprecarono. Terzi alla fine, promossi alla penultima nella festa con i genoani vincitori del campionato. Differenze? Totò de Vitis non era il KL15 di oggi, nemmeno lontanamente.

Venticinque punti, si respira un’altra aria. Due trasferte proibitive, da giocare con lo spirito leggero di chi affronta, fra 48 ore, chi su 26 partite ne ha vinte ventitré. Lanciando una provocazione: se esiste, in Italia, una squadra che potrebbe fare dell’Ajax un buon modello è proprio l’Udinese, che di pressioni (come i lancieri) non ne ha punto.

Sezione: Primo Piano / Data: Gio 07 marzo 2019 alle 08:50
Autore: Franco Canciani
vedi letture
Print