Sarei insincero se dicessi che non mi manca il pallone. Nulla di lancinante, sia chiaro, trattandosi di un accessorio, di una di quelle componenti gratificanti anche se non essenziali che rendono più piacevoli le nostre settimane. E al pallone aggiungerei, nel caso personale, la camminata tra i vignali di Buttrio, o i 40 chilometri in bici con un giro più ampio tra le colline che abbracciano l'abbazia di Rosazzo.
Prigionieri in casa, ci si può adattare a privazioni del genere quando il ventaglio degli interessi è abbastanza esteso da permetterti di concentrati su altro e le giornate vanno, passano abbastanza velocemente in attesa che il nemico, questo virus sbucato dal nulla e sfuggito all'attenzione della scienza, si dia una calmata e torni a cuccia, o che facciano prima biologi, virologi e ricercatori a mettere a punto un vaccino dandoci l'immunità, l'assicurazione sulla vita.
Forza camici bianchi, siamo nelle vostre mani. Il tifo è tutto per voi: per chi opera nelle terapie intensive e nelle corsie degli ospedali accanto ai malati, per chi nei laboratori cerca strategie e connessioni in grado di inchiodare il piccolo-grande bastardo che ci sta rovinando la vita.
Non mi pare poi fuori luogo l'invito, per il futuro, a mordersi la lingua prima di irridere e dare dei pazzi a coloro che possiedono occhi speciali e ci mettono in guardia vaticinando scenari sul momento incredibili. Riferendosi alla corsa folle dell'umanità spinta dalla globalizzazione, già cinque anni fa Bill Gates, fondatore di Microsoft e ora in libera uscita filantropica dalla sua creatura, ebbe a dire: “La prossima guerra che ci distruggerà non sarà fatta di armi, ma di batteri. Un virus potrebbe uccidere nei prossimi anni milioni di persone e procurare perdite finanziarie di tremila miliardi nel mondo”.
E pure la letteratura ama spingersi nelle premonizioni se pensiamo che ciò che accade oggi è contenuto in un thriller dello scrittore americano Dean Koontz, il quale nella seconda stesura (1996) del libro “The eyes of darkness” fa partire il contagio pandemico proprio dalla famigerata città cinese di Wuhan e per colpa dei pipistrelli! Dire inquietante è dire poco.
Mentre scrivo queste note inevitabilmente mi chiedo come se la passino i nostri eroi, i calciatori e gli sportivi in genere, privati della loro vetrina e, sopratutto, sconvolti nelle abitudini (allenamenti, ritiri, trasferte... ) che scandiscano la loro vita in modo pressochè totalizzante. Una volta azzerata la loro condizione privilegiata, come tutti sono alle prese con una quotidianità da reinventare, avvolta dall'ansia e dall'interrogativo assillante di sapere: quanto durerà? Quando potremo tornare a giocare? Arriverà lo stipendio? Il contratto scade a giugno, e poi?
Domande senza risposte perchè nessuno al momento può rispondere. L'unica certezza è arrivata martedì 17 marzo dall'Uefa, che ha deciso di non disputare l'Europeo (era in calendario per un mese a partire dal 12 giugno), rinviandolo all'estate del prossimo anno. Alla buon'ora, ci voleva tanto per una decisione che da subito era apparsa il male minore? Si va giustamente a privilegiare i campionati nazionali sperando di salvare, con essi, anche gli introiti da diritti tv, quelli che tengono in piedi l'intera baracca, schivando nel contempo restituzioni di denari agli sponsor per mancata visibilità, e agli abbonati per mancato spettacolo.
Si naviga a vista. Il calcio italiano, dopo incertezze e contraddizioni e bisticci da bottega a inizio crisi, pare aver messo giudizio, immaginandosi degli step per completare anzitutto il campionato, fermato quando mancano ancora dodici turni (più quattro recuperi) per decidere scudetto e retrocessioni. Sperando che basti un mese e mezzo per tornare a una qualche normalizzazione, ha concepito una no-stop di due mesi, a partire dal 2 maggio o dal sabato successivo, per completare il campionato, con la deadline fissata al 30 giugno: vale a dire che sarebbero disponibili 9 weekend più tre turni infrasettimanali.
E se il periodo di serrata, eventualità per nulla improbabile, fosse prorogato? Nulla vieta di slittare ancora, giocando in estate (notturna), in periodo di ferie, organizzando poi su nuove scadenze la prossima stagione.
Se sacrifici devono essere fatti, tutti li devono condividere, non sono accettabili privilegi e distinguo. Meglio così, credo, rispetto ad altre soluzioni come quella di inventare playoff e playout estranei alla tradizione della serie A. Oppure l'altra, di neutralizzare il campionato sulla classifica attuale, eventualità da tenere presente soltanto nell'unico caso che il coronavirus vincesse ancora resistendo pure ai caldi estivi.
Nel frattempo - come dicevo - facciamo il tifo per la squadra mondiale dei camici bianchi. E non tanto per il calcio. Tifiamo per noi stessi, per l'umanità.
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