Cina, mondo fantastico: peccato che, in una megalopoli come Chongqing, le connessioni siano deboli, flebili, tanto da far pensare (a torto) al vecchio, maoista controllo delle comunicazioni. Che non sarà, per l’amor di quel Dio. Quindi dalla Piccola Patria le notizie arrivano a spizzichi e bocconi.

Oggi, a Shanghai, tutto corre a cento all’ora: e finalmente leggo, compulso e finalmente scrivo. Scrivo dell’ennesimo avvicendamento in panca, Pozzo come l’amico-nemico Maurizio...

Lascio perdere le ragioni morali che impongono comunque un saluto al povero Giuseppe Iachini, vittima delle proprie insicurezze e della (sinora) poca lena mostrata dai biancogrigi targati auto romena; vittima, Gioacchino, di un cambio tattico (necessario) avvelenato da infortuni e prestazioni talmente scadenti da far pensare (noi in malafede?) che qualcuno si trovasse non bene alle dipendenze dell’ascolano. Come dei precedenti tre tecnici, per altro.

Lascio anche perdere le caratteristiche tattiche del nuovo arrivato, per molti troppo ancorato ad un vetusto quattro-quattro-due, modulo a dir degli esperti un po’ prevedibile.

Sciocchezze.

Per salvare una stagione finora fallimentare quanto le ultime due, o tre, c’era bisogno di tornare alle radici.

Luigi Delneri, sessantaseienne aquileiese, non è Mourinho, né Guardiola o Ancelotti; ha un pedigree discreto come calciatore, discreto come allenatore e gli apici con Chievo, Atalanta, Sampdoria che portò ai preliminari di Champions dopo quasi vent’anni. Male al Porto (si mise contro i senatori) e alla Roma; alla Juventus gli infortuni causarono un settimo posto dimenticabile.

Quel che più mi interessa, però, è sottolineare che Gigi visse con noi sessanta partite nel momento più speciale della storia recente bianconera: sì, per me anche oltre le storiche qualificazioni europee. Dopo decenni di anonimato in terza serie, l’AjaxUdinese di Massimo Giacomini era appena risalita in cadetteria, e nel ruolo di mezzala destra (al numero otto, si usava dire) il capitano Elio Gustinetti aveva scelto di lasciare Udine, destinazione quel Foggia retrocesso dalla massima serie e ambiziosamente deciso a risalire immediatamente. Fu automatico che il percorso opposto lo facesse un giocatore che con i satanelli aveva disputato cento partite in tre anni, perdipiù nativo della furlanìa “che parla con la finale”. E dopo qualche settimana di tira-e-molla, Gigi Delneri vestì la nostra maglia, ornata solo della coccarda di coppa Italia Semiprò vinta l’anno precedente, nessun ulteriore ammennicolo a disturbare l’equilibrio delle bande bianchenere.

E gloria sia: alla prima giornata fu proprio Gigi a realizzare la prima, storica rete del ritorno friulano in B; un tiro dai venticinque metri, una saetta che lasciò impotente il baffutissimo portiere rossoblu Zelico Petrovic. Finì 3-1, con Riva (Mariano) e Ulivieri (Nerio) a sancìre la vittoria dopo il temporaneo pari ad opera di un giovanissimo (e futuro bianconero) Spadino Selvaggi.

Ero in gradinata, bimbo di nove anni con gli occhi lucidi di felicità e commozione. Era pieno, lo stadio; altri anni, altri tempi. Bagigi e mandorle, sigarette amare, l’uomo in distinti nord che con una batteria collegata a delle trombe suonava “la cucaracha”, niente tornelli, niente schedature, tanto entusiasmo e bandiere e cori e striscioni bianchi, e neri, a bande orizzontali, con cui i club manifestavano la propria presenza, ed appartenenza.

Di trentotto partite quell’anno, senza esagerazioni, ne seguimmo poco meno di trenta. Si viaggiava in “torpedone”, poca autostrada e tanta strada, su e giù per la penisola. Apoteosi finale con il Palermo, goal di Riva (Mariano) e tutti in Piazza Rizzi, concomitante essendo la sagra di Sant’Antonio, a stringere mani a “occhi di ghiaccio” Vriz, a Fulvione Fellet, al mister sempre sulle sue.

Ecco perché esclamo, urlo da migliaia di chilometri di distanza, il mio “benvenuto” a Luigi Delneri. Perché nel mio cuore di bambino in un corpo ormai lanciato verso la senescenza, egli incarna la figura di uno che nacque da noi, giocò da noi ed ora allena da noi; uno che può a pieno titolo impugnare un capo tecnico bianchenero recante tre sponsor, agitarlo come una muleta sotto il naso di internazionali giocatori dalle (sinora) scarsamente manifeste doti morali, e dire ”Noi siamo Udine. We are Udine. On est Udine”. Non cado nella facile ironia della parlata non sempre sciolta del Gigi, prendere in giro le persone per difetti fisici o di dizione non mi fa ridere; credo, invece, che lui più di altri colleghi preparati come Pioli o Corini possa riportare la città, i colori, la nobiltà biancanera al centro del villaggio. Lascino perdere il progetto, i dirigenti; pensino a supportare Delneri nel salvare il salvabile, evitando ribaltoni gennarini che, come l’anno passato, causerebbero confusione e nessun giovamento.

Devo essere onesto, e professare la mia totale parzialità: pochi altri allenatori, al netto delle capacità, avrebbero captato la mia totale indulgenza come e più di Gigi. Provo affetto per il giocatore e soprattutto per l’uomo. Da tecnico lo valuteremo, ma ne dobbiamo riconoscere le provatissime doti caratteriali: come detto, perse il posto al Porto per essersi messo contro gente come Deco.

Buon lavoro, amico mio; se da allenatore bianconero ci porterai la metà dei risultati che mostrasti da giocatore, inclusa una bellissima rete al Milan scudettato diretto dal tuo amico Massimo Giacomini, sarà salvezza tranquilla, almeno un barlume di gioco e forse anche “side A” della classifica. In caso contrario, ammetterò di essermi sbagliato ma non Ti serberò rancore: agli eroi dell’Udinese-totale, questo mai.

 

Sezione: Primo Piano / Data: Gio 06 ottobre 2016 alle 15:00
Autore: Franco Canciani
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