Vrag od Šibenika, il diavolo di Sebenico. Così veniva chiamato dagli avversari Dražen Petroviƈ, uno dei giocatori più forti e poetici, concreti ed artistici, determinanti e creativi che abbiano mai calcato i parquet d’Europa e degli States.
Solo chi lo ha visto giocare, solo chi ha subìto (da tifoso avversario) o goduto quei movimenti felpati mentre, lingua leggermente penzolante di lato, penetrava le difese avversarie quasi fossero inesistenti ha potuto apprezzare la divinità del gesto, immaginando che quel dito allungato dall’Altissimo a Drazen, a MJ, oppure a Doctor J, fosse per dir loro “questa è la scintilla del talento, prendete una palla a spicchi ed andate per il mondo insegnando cosa ci si debba fare”.
Nacque realmente e cestisticamente a Sibenik, la croata Sebenico, un anno e mezzo dopo la venuta al mondo di Michael Jordan: MJ23, uno che fosse nato a Bari si sarebbe chiamato Michele Giordano e magari la storia del basket sarebbe cambiata.
A quindici anni Dražen già gioca nella Prvi Liga yugoslava, e le stimmate si riconoscono ad occhio nudo in quei due metri di adolescenza impertinente, in quella cascata di riccioli mori capace, a diciassette anni e già capitano della squadra, di riempire gli arbitri di insolenze. Isserà la squadra della sua città ai massimi livelli nazionali, ed a giocarsi per due volte una coppa europea contro il Limoges.
A vent’anni il fratello Alexander (in arte Aza), play di classe e d’ordine che mi trasmise la passione per la maglietta numero cinque, lo chiama al Cibona, la squadra principale di Zagabria, eterna rivale della Yugoplastika di Spalato e delle due formazioni serbe di Belgrado.
E poi fu merengues, e da lì il balzo in NBA. Portland per due anni, le stagioni in maglia 44 in compagnia di Kevin Duckworth, Jerome Kersey e Cliff Robinson fra gli altri. Fa fatica, ma porta a casa comunque medie di tutto rispetto, primo europeo a sfondare nel mondo stars and stripes dell’NBA, che per noi gavanelli anni ottanta sa di icetea e mastro Dan.
Dall’Oregon alla Jersey shore, Nets oggi a Brooklyn: altre due stagioni dove s’impone come fromboliere di classe: ecco, la classe.
Perché il basket, spesso visto dagli ipercritici ignoranti come un semplice esercizio di mira, è di più: rispettai Oscar Schmidt, che andava in fregola solo segnandone quaranta a partita; adorai invece questo ragazzo croato che non si accontentava di metterla dentro con la regolarità di chi timbra un cartellino. Lui voleva, lui dava di più: ricamava creava componeva, ogni canestro un’emozione nuova, come quell’entrata contro (credo) Philly quando passò la sfera prima dietro la schiena, poi sotto la gamba ed infine nella retina avversaria; ricamava creava componeva irridente come Mozart, amalo oppure odialo, vedasi le cinque finte contro il totem Hakeem Abdul Olajuwon, il quale a) starà ancora cercando la palla, nascostagli dal piccolo farabutto di Sebenico, e b) probabilmente dopo quella sera andò in analisi per rimuovere il fatto.
E noi ventenni cercavamo, invano, di imitare quel talento puro ed intoccabile, amalo oppure odialo, ripiegando sull’ordinato Aza, giocatore tipico classico elegante, senza i picchi di talento di Dražen ma comunque sontuoso.
Ventitre anni, lo scorso sette giugno ne sono passati ventitre, di anni dalla sua scomparsa. Questo mio buttar righe sulla carta virtuale non vuole sciorinare medie, annate, titoli e meriti; non vuole neanche essere un tributo, un coccodrillo postumo anziché anteriore, nemmeno un epitaffio o un RIP virtuale, cose che mi repellono. Neanche ricordare come a ventinove anni il cielo abbia reclamato uno dei figli prediletti, in un terribile incidente d’auto vicino alla bavarese Ingolstadt quando un camion taglio la strada all’auto su cui viaggiava da passeggero per recarsi a giocare con la nazionale (ormai) croata in Polonia. Ingolstadt, auto di lusso e casa di Klaas Faber, macellaio nazista d’origine batava. Dicono le leggende che si fosse rotto delle invidie statunitensi e stesse per cedere alle pressioni milionarie del Panathinaikos, non lo sapremo mai. E non ci interessa.
No. Nulla di tutto ciò mi ha spinto a scrivere.
L’ho fatto solo per dirgli, offrirgli un grandissimo, immenso e pubblico hvala. Grazie, Vrag od Šibenika. Grazie per averci fatto sognare che anche nella nostra generazione, in Europa, potessero nascere talenti forti a tal punto da attraversare lo stagno Atlantico e farli neri, i presupponenti americanoni; dove non riuscirono Creso Ćosić, Dražen Dalipagić, Dragan Kićanovic c’era riuscito lui, diavolo d’un Mozart croato.
Rimpianto di non averne visto di più; felicità di averlo goduto forse abbastanza per ricordarselo, come fosse ieri, oggi che di capelli non ce n’è mica più tanti ed alla palla Spalding a spicchi diamo ormai del Lei.
E oggi, caro Diavolo, avresti 52 anni. Forse qualche capello in meno, qualche chilo in più. Invece la tua vita, e parte dei nostri sogni, si sono infranti ventitré anni fa, in un villaggetto tedesco di nome Denkendorf... Villaggio dei pensieri: quando si parla di Genius loci...
Ma gli dico Hvala, e aggiungo Doviđenia, arrivederci. Ci vediamo dopo, Dražen, e per non sbagliarmi mi porterò dietro un vecchio paio di Kronos firmate da Larry Wright, il folletto bayou. Facciamo due contro due, San Pietro è un po’ lento e sta con te, io sono piccolino e mi prendo Creso. Ma mi raccomando: l’Altissimo, anche dovesse indossare delle Air, lascialo stare. Modera le finte sul Padron di Casa: Hakeem ci ha riso sopra, Lui magari no.
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