Già: la rete del Larangeiro capitano, al termine di una delle sue migliori prestazioni degli ultimi due anni, è stata un gioiello al termine di una recita forse imprecisa, di certo generosa.
Il compleanno bianchenero, iniziato un po’ troppo presto con la sfilata dei club (alle 19,30, ora nella quale la maggior parte dei paganti era appena uscita dal proprio posto di lavoro... Era lunedì, dopotutto) e continuata con il groppo in gola, causa la coreografia orchestrata dai Ragazzi della Nord e dal gruppo AUC capitanato dall’amico Daniele (maledetti Voi, nessuna pietà per un vecchio come me), non poteva trovare un epilogo “migliore”: ultimo respiro, palla a Widmer che nella ripresa pareva terzino del Barcellona; cross che passa sopra il piede di Masina, sulla testa di tutti i giocatori disposti a centroarea e girata al volo sotto la traversa del capitano bianchenero. Basta?
No. Esultando Danìlo si trascina dietro tutti i compagni, tutta la panchina, un Gigi Aquileiense anche lui in preda alla gioia meno nascosta, e come un fiume in piena trenta anime si scagliano sotto la curva Nord, da cui un fiume di supporter ancora più pieno li accoglie grondante bianchenero orgoglio: ché oggi le polemiche, le incomprensioni, il recente passato non conta. Conta la maglia, nerostellata, che rimanda a quel primo gruppo di ardimentosi che conquistavano il torneo di foot-ball ad un concorso ginnico: non è scudetto, ma chissene, i primi siamo stati noi, i primi bianconeri siamo noi.
Conta la maglia nera e bianca (ma stasera quel dazibao di sponsor proprio non si poteva evitare?), conta il nostro cuore che c’è, c’è sempre stato. Contano tutti quelli che mi correvano in mente ieri sera, mentre Daniele e i suoi alzavano lo “scudetto”, lo striscione con gli stemmi, la storica bandierona biancanera con l’aquila friulana. Contano i giocatori che, a striscie o rigone, calzettoni giù o in perfetto ordine, hanno dato tutto per i nostri colori: ciao Giulio, DeBe, PMM27 che da lassù Vi sarete ribaltati dall’esultanza quando Danìlo l’ha finalmente sbloccata. E i ragazzi che mi ricordo d’aver visto, diretti da Manente, da Massimo Giacomini, da Comuzzi e Rosa; da Fongaro valdagnese d’acciaio, e Orrico e D’Alessi, Perani, Giagnoni ed Enzo Ferrari, allenatore della svolta il quale si fece interprete di una progettualità che oggi tanti sbandierano, quella dei “giovani in prima squadra”. Giovane papà, il grande Enzo che stamane ho visto con piacere assieme al fratello Lorenzo Petiziol (ieri sera mancavate, allo stadio: eccome!), dei vari Papais, Miano, Cinello, Cossaro, Billia, Macuglia, Trombetta. I più recenti ve li ricordate.
Conta la fascia rossa al braccio di eroi come Dino Galparoli, come Elio Gustinetti, Valentino “Leonida” Leonarduzzi o Francone Bonora; di Valerio Bertotto, di Alessandro Calori, di un signore che oggi sverna a Goa, allenatore in un campionato ricchissimo ma pittoresco, e che nel mio sogno proibito rivedo, quando Gigi si sarà stancato e deciderà di ritornarsene ad Aquileia, scendere in sala stampa a commentare le gesta dell’Udinese da lui diretta con quell’irresistibile accento... “L’Uginési”...
La gara? Particolare di secondaria importanza rispetto alla storia, che per citare Francesco “siamo noi”: il Bologna era uno squadrone “che tremare il mondo fa”, ma oggi indossando un’improbabile tenuta dai colori adatti ad una discoteca anni ’80, non ad un campo di calcio, pratica un gioco di scarso interesse basato su una doppia cerniera difensiva, peraltro tutt’altro che impermeabile. Rischia di segnare dopo 3’, sale in contropiede due o tre volte (sospinti nella ripresa dalla verve del giovanissimo Di Francesco), mena senza risparmio e paga dazio al giovane e dimenticabile arbitro Pasqua con l’espulsione inevitabile di un Pulgar cui piacciono irresistibilmente le caviglie avversarie. D’altra parte se Donadoni schiera un centrocampista di contenimento al posto del talentuoso Viviani l’intendimento si comprende. Una prima parte di gara condotta ad alto ritmo, ma le tre occasioni toccate a Zapàta non rendono onore alle supposte doti del ragazzo colombiano. Un collega esperto mi diceva che lo vede poco entusiasta di ciò che fa: io lo vedo proprio avvilito, quasi gli pesasse sulle spalle un futuro lontano da Udine ma anche da Napoli.
Nella ripresa l’Udinese gioca meno fluida, ma le occasioni fioccano: Zapàta, due volte Perica, ed un paio di agganci falliti in area da Théréau e Fofana sembrano condurre il treno della partita sui binari di uno zero a zero ingiusto ma accettabile. Tutto ciò fino all’ultimo respiro, all’ultimissimo giro di lancette, ché “la gente come noi non molla mai”.
E stavolta neanche i bianchineri hanno mollato: hanno resistito alla tentazione di accontentarsi, del celebre motto “meglio due feriti che un morto”, hanno pressato fino all’ultima stilla di sudore (Seko Fofana seduto a terra senza le energie per rialzarsi è emblematica immagine) ed alla fine la quota 18 punti raggiunta sa tanto di mare calmo, di prospettive migliori. In fondo, onestamente, c’è molto di peggio e non vedo in Crotone, Palermo o Pescara le doti di rimonta che l’anno passato hanno animato Frosinone e Carpi (che comunque non ce la fecero). Ed anche l’Empoli non pare molto superiore a queste...
Ma Gigi ha ragione: l’Udinese è inespressa. Non sarà la squadra del 1983, quella di Zico-I; né quella di Spalletti, o Zaccheroni, o Guidolin-II: ma neanche una compagine che deve spartire il pane duro con le dirette combattenti per un posto al sole.
Il meglio poi Danilo lo ha dato nella dichiarazione post-partita: ha ricordato con tristezza le vittime della Chape, e soprattutto la fortuna che ragazzi come lui hanno nel fare un lavoro così privilegiato con un salario tanto generoso. Il capitano dell’Udinese ai miei occhi può avere mille colpe, ma le pochissime volte nelle quali ci ho parlato non mostrava negli occhi le stimmate dell’ipocrita (e ne ho collezionati tanti, durante la mia vita lavorativa, che per questi sono un vero cane da tartufi). So che mercoledì qualche parola coi tifosi l’ha scambiata, spero la faccia finita con le piazzate e si comporti da leader, quello che la fascia gli impone di fare. Punto.
Lo so, lo so, lo so: sono un vecchio sentimentale, incostante, ondìvago. Ma il calcio per me è un gioco all’interno del quale vivo di emozioni. E se ogni tanto me la prendo, in effetti spesso negli ultimi trenta mesi, è solo perché rimango sempre il quattordicenne che il signor Coimbra, a Tarvisio, indica per fare due palleggi in amicizia. Chiamatela sindrome di Peter Pan: ma io mi ci trovo troppo bene. Gavanel par sìmpri.
Auguri a tutti Voi, centoventenni miei: un secolo e vent’anni racchiusi in una corsa lunga centoventi metri, sotto quella che per sempre sarà la Curva Nord dello Stadio Friuli.
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