Ho lavorato in una società di calcio solo per un anno, e per di più da "galoppino". Poco per capire a pieno le pieghe & le piaghe di un sistema. Mi ricordo però che tutto era molto diverso dai lavori precedenti. A distanza di tanto tempo, quello che più ricordo è un intervista del DG Tosi. Lo ho già raccontato altre volte. Tosi era un bravissimo dirigente; aveva portato il Modena dalla C1 alla A in due stagioni e mezzo. Diceva, al giornalista di turno, che lui era l’ultimo ad andare via dagli uffici, era lui che spegneva la luce. Però, quando i colleghi mi chiedevano di andarmene alle 19.30 del venerdì sera, perché stavo ultimando gli ultimi accrediti stampa, non mi ricordo una sola volta di averlo visto.
Non voglio fare un discorso anarchico. Un dirigente deve lavorare meno di un comune impiegato. Un dirigente prende le decisioni, sta agli altri saperle tradurre ed eseguire. Quello che voglio dire, invece, è che persino un ottimo dirigente, un vincente, uno che voleva portare programmazione tecnica ed economica in una società, era caduto in quello che chiamo “il complesso della cubista”.
Mi scusino lor signore e signori, non voglio offendere ne chi lavora nel calcio, tanto meno le ragazze immagine in discoteca (fossi matto!). Il calcio corrode l’anima, e sicuramente sarei diventato così anche io, fossi rimasto. Un po’ perché vige una regola marketing che dice “fai vedere a tutti che siamo qualcosa di importante, di difficile da avere”, un po’ perché non è affatto vero che la vanità è femmina (o almeno, non soltanto…). Apparire piaceva, che fosse televisione o carta stampata. E magari il mio scrivere editoriali e fregarmene delle regole del giornalismo più serio (sì, sono un giornalaio, lo so, scrivo col cuore in mano e a volte sbaglio) è una scoria di quel periodo, è una relazione d’amore sbocciata e mai consumata. Qualcosa che potrebbe essere cantato da Battiato ne "La stagione dell'amore".
Sta di fatto che nel calcio serve equilibrio. Due tipi diversi di equilibrio. Uno fra esterno ed interno. Il Paron ha parlato poco e quelle poche parole mi hanno fatto venire il sorriso, ricordando quando, il giorno dopo lo spareggio Uefa contro la Juve (c’era Guidolin, vinto of course…) gli scrivevo un telegramma dall'ufficio postale di San Lazzaro di Savena con solo tre parole intevallate da altrettanti punti: "Grazie. Sempre. Comunque." Mi viene il sorriso perché finalmente qualcuno nell’Udinese si è accorto che il pubblico, anche in un’azienda calcistica, tanto più in un’azienda calcistica, è sovrano. Non mi interessa se l’abbia detto con la mano sul cuore o sul portafoglio. L’ha detto, ha lanciato un messaggio. Sono un pragmatico, è per questo che mi piace il Paron.
L'altro equilibrio è fra azienda, nel senso economico del termine, e impresa, in quello culturale ed antropologico. L'Udinese è la continuazione della storia di una piccola patria. Non potrà mai vincere la guerra su Milano, Roma o Torino; ma può benissimo vincere qualche battaglia. Per farlo, serve un giusto mix imprenditoriale fra plusvalenze e programmazione tecnica. Con il Paron in società, qualunque fosse il suo ruolo, questa qualità c'era.
E mi tocca ripetermi anche su un’altra questione, già scritta quest'estate: l’Udinese ha bisogno di una guida forte, di un dittatore nel senso romano antico del termine. Il calcio è un particolare ambiente per il quale non si può gestire due squadre. E’ come l’Impero Romano, va diviso fra occidente e oriente, in questo caso fra nord e sud. Scusate, ma mettetevi nei panni di Gino Pozzo. Perché dovrebbe puntare tutte le finanze e l'impegno sull’Udinese se a Londra fai più utili e hai meno rischi? Noi siamo i tifosi, è normale che punteremmo tutto su Udine. Lui è (primariamente) un imprenditore. E il suo lavoro lo sa fare. 
Ergo, in terra Friulana serve un uomo forte, un decisionista, uno che sappia “far andare le cose”. Un capo produzione, non un responsabile marketing. I tifosi udinesi non sono più intelligenti degli altri, sono molto più civili della maggior parte del tifo organizzato nazionale, ma non hanno tutti la laurea honoris causa alla John Hopkins in America. Però conoscono la differenza fra quello che vedi e quello che ti viene raccontato. L’uomo forte in un ambiente pieno di “cubiste” (non si offenda nessuno eh, lo ripeto, tutti ci siamo innamorati di qualche bella ragazza che ballava su un cubo in discoteca, io ho anche avuto la fortuna di conoscerne qualcuna che oltre a bella era pure simpatica)… dicevo, l’uomo forte in un ambiente del genere è uno silenzioso. Se la dirigenza dell’Udinese ha un problema, è che parla troppo.
Bentornato Paron, so che la sua età non aiuta, che preferisce rimanere ai margini. Ma ogni tanto, in questi anni difficili, è bello sentire la voce della ragione.

 

 

 

Sezione: Editoriale / Data: Mar 11 ottobre 2016 alle 18:56
Autore: Giacomo Treppo
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