Sei maggio: giorno pesante, fatto di vibrazioni per nulla positive. L’ho detto molte volte: chi le ha provate, allora, non se le può più togliere dal cuore e dalle scarpe.
Sei maggio: per mia figlia, quella piccina, è tempo di Prima Comunione. In nessun caso sarei potuto essere allo stadio, a meno che non posticipassero alle 20:45. Perché ricevere il Corpo di Cristo per la prima volta, spezzare il pane con Lui è importante. Non è importante, invece, quanto o come io creda. Ci debbo essere perché voglio essere lì.
Per 45 anni, da quando ne avevo treemmezzo, ho seguito il bianco ed il nero. Mi ci hanno instradato papà e nonno Giordano: non li ho lasciati più, quei colori. In altro momento, qualsiasi!, avrei penato un pochino cercando, alla Paolo Villaggio, un modo poco elegante per sapere il risultato, l’andamento, gli umori dello stadio, le bestemmie masticate dagli spettatori sorridendone, financo in un posto sacro come una chiesa.
E oggi? Udinese ed Inter si giocano parte del proprio campionato alle 12.30. No: non ci sarò.
Ma stavolta non sento dentro di me alcun rammarico, rimpianto, malinconia: comprendo l’A.U.C. che invoca il sostegno fino in fondo per poi crocifiggere, se il caso, i responsabili. Comprendo però anche chi dice ‘basta’, ché dopo duecento gare di questo livello e decine di migliaia di euro investite al seguito della Biancanera, ne hanno le tasche piene.
E non mi riferisco ai risultati: l’Udinese è retrocessa diverse volte nella propria storia.
Mi riferisco alla dignità.
Abbiamo tante volte assistito alle immagini riprese dalla RAI, con Paolo Frajese giovanissimo al microfono, subito dopo l’Orcolat del 1976: quella gente, rimasta senza nulla, aveva due palle così. Ed una dignità, un orgoglio di pari dimensioni. Una ragazza, interrogata dal Frajese perché scorta senza una lacrima, rispose ‘i morti li ho pianti ieri sera. Oggi bisogna pensare a come ricostruire la casa’.
Ecco. Questo manca all’Udinesecalcioessepià. L’orgoglio di appartenenza. E nemmeno parlo della professionalità, le ultime tracce della quale ho perso di vista secoli fa.
Non ho mai parlato granché della dirigenza, della società, della cosiddetta proprietà (le quote azionarie sono ben specificate sul bilancio pubblico della società) perché onestamente non mi interessano. Qualcuno però ha avuto l’ardide di toccare i tifosi, rei di disapprovare pubblicamente il comportamento in campo. Dopo sole undici sconfitte di fila. Dopo ben sei punti accumulati nel girone di ritorno (dopo il pari contro il retrocesso Benevento, sono diventati sette). Dopo sette vantaggi di fila svaniti nel giro di qualche minuto.
Si può essere d’accordo o meno con chi fischia o chi sostiene; si può dire che andare allo stadio, pagando, per fischiare non serve. Ma criticare l’utente finale del gioco, chi ogni anno firma un assegno in bianco per seguire la squadra senza garanzia alcuna, chi in fondo è il vero proprietario morale dei colori significa dimostrare una certa confusione.
Per loro, oggi, mi vesto di cachemire e sono loro, i dirigenti, che avvolgo di un caldo abbraccio prima di pensare quel che devo pensare, citando un noto giornalista radiofonico. Mi parlano di rivoluzione, vedremo: se però non verranno riempite le caselle importanti, e fatte sparire le teste che hanno dimostrato di non essere (più?) all’altezza del compito cui sono preposte, sarà l’ennesimo ribaltone gattopardesco.
Ai giocatori non dico nulla. Fra trent’anni, fossi ancora qui, mi ricorderò di Fanesi e Bierhoff (buon cinquantesimo, bomber) non certo di Perica o DePaul.
Anzi di loro sì: l’Udinese probabimente si salverà. Ma nel mio cuore questa rosa, fatte salve alcune eccezioni a cominciare da Kevin, da Larsen e dal povero Angella, è retrocessa. In terza serie.
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