Scrivo queste righe dalla Cina profonda, quella nella quale coesistono la tecnologia spinta e i giornali sociali sulle strade, quella nella quale speriamo di difendere, quantomeno, le espressioni enoiche nazionali al meglio. Per quelle regionali c’è una nutrita delegazione friulanofona davanti alla quale chino il capo, rifugiandomi fra il brunello dell’amico Adriano ed un prosecco buono, buono.
Da qui assisto all’arrivo di Davide Nicola: lo ricordo, Davide, quel 4 dicembre 2017 nel container-sala-stampa di Crotone, assediato dai colleghi locali che ne chiedevano (ed ottennero) la testa;reo,lui, di non far giocare i rossoblu come sarebbe piaciuto loro. A Nicola ci presentammo, noi due (con il collega del Messaggero unici friulani in sala stampa), complimentandoci e facendogli coraggio. Ci ringraziò, dopo due giorni si dimise: hombre vertical.
La scelta? Dopo che Francesco chiuse la sua esperienza udinese con un anno d’anticipo mai mi sarei atteso di rimpiombare nel bailamme di allenatori che contraddistinse l’inizio dell’attuale era gestionale trent’anni or sono; eravamo giovani, tutti, erano anni di ascensore fra massima serie e cadetteria; quella situazione che dal 1995 non si è nemmeno lontanamente mai manifestata: fino all’anno di Colantuono.
Oggi l’Udinese è in cerca d’identità: la rosa, tutto sommato, non è da retrocessione ma lo è la poca personalità con cui gestisce le gare; la classifica, di conseguenza, mai come oggi appare esangue e rischiosa. Sommando la sterilità offensiva di un attacco che crea tantissimo e segna pochissimo (solo sfortuna? Mah) e la ritrovata fragilità difensiva, e la terz’ultima posizione è servita.
Ha pagato il salmantino don Julio: un ragazzo volenteroso ed un gran lavoratore con un’idea di calcio che mi piaceva propalata per tutta la preseason: palla a terra, controllo del terreno di gioco, spaziature tipo-basket che permetterebbero di rischiare meno e realizzare di più. Cos’è venuto a mancare, allora? Coraggio e rosa, secondo me. La serata contro il Benevento ha fatto da spartiacque fra prima e dopo, fra il tiki-taka à la Guardiola e un 4-3-1-2 prima (non malvagio, ma più coperto); un inspiegabile difesa a tre poi, e mal gliene incolse. Errori di gioventù? Non so. Se devo fare un appunto a Julio, ai suoi accompagnatori e match analyst, è che avrebbe dovuto capire che le cose stavano per andare a finire malissimo; tanto valeva continuare con il proprio principio di gioco, fatto di possesso ed entusiasmo.
Il modulo utilizzato durante la striscia perdente è da troppo tempo impraticabile, e Velàzquez avrebbe dovuto capirlo. Ma addossargli tutte le responsabilità, come il fuoco un tempo amico ha fatto, è esercizio miope.
La rosa, dicevamo: non ne discuto tanto la qualità quanto la maniera in cui in campo troppi giocatori si sono proposti. Dopo Empoli qualcuno ha criticato Rodrigo per l’errore dal dischetto, ma se c’è uno che si è sempre smazzato e ha salvato tante situazioni spinose (Chievo, Genova fra le altre) è proprio lui. Seko, piuttosto, e Mandragora stanno giocando non all’altezza delle attese. E finiamola col tirare in ballo la posizione in campo, devono semplicemente dare di più.
E lo pretenderà, Nicola. Lo pretenderà. Spero Davide abbia il coraggio di fare scelte e farsi sentire; spero Davide sia stata lui stesso, per primo, una scelta societaria e non un ripiego in mancanza d’altre novità. Io lo stimo, e di certo è trainer abituato alla lotta vischiosa delle ultime piazze in rango. Mi giunge voce abbia chiesto espliciti rinforzi, e ne ha ben donde: davanti oltre a Lasagna c’è il vuoto, solo Machìs arruolabile quando, come oggi, le due punte centrali sono out. Lo so: vi chiederete perché non puntare su un usato sicuro italiano, e ne giravano a prezzi tutto sommato abbordabili (Falcinelli, Petagna). Non è la politica della società è stop. La discriminante sta tutta nell’azzeccare o meno le scelte foreste: ecco, sono state vincenti in passato; viviamo oggi l’era del ‘meno’.
La cosa più avvilente che un cantore come me, che non sono commentatore né editorialista; per il quale scrivere di calcio esula dall’analisi dei numeri e delle statistiche, esercizio utile ma che lascio ad altri; la cosa più avvilente, dicevo, è scrivere gli stessi pezzi da cinque anni. Cinque. Un’eternità, un lustro, più di un quadriennio mondiale o olimpico, un’intera vita scolastica primaria o superiore, un intero corso di studi universitari. Un’eternità.
Ce lo meritiamo? Lo sport è questo. Accettiamolo, ma non prima di avere esperito ogni tentativo per evitare il peggio. E questo, almeno a me, non sempre è sembrato avvenire: a tutti i livelli.
Arrivato a Tokyo, inizio settimana scorsa, ho visto Pradé alla televisione societaria: mi è parso di averlo accanto, tanto giapponese è stata la sua assunzione di responsabilità. Che, ovviamente lo sa, non sono tutte sue: ma lui di questa squadra è punto di riferimento verso la società, quello che non sono stati i suoi predecessori. Sentirlo dire quel che pensiamo, cioè che perdere ad Empoli non esista, che di pancia avrebbe reagito in una maniera più passionale di quanto la testa suggerisca, sta insomma vivendo il modesto presente agonistico con sofferenza e non con atarassico menefreghismo come accaduto in passato a diversi livelli societari. E chi lo ha sopra di noi durante le gare in tribuna stampa la sente, questa sofferenza.
Io ho ancora fiducia in lui; sarò inguaribile, o forse l’ultimo giapponese su una trincea di una guerra ormai perduta: ma non m’interessa, scrivo quel che penso e penso quel che mi pare. La cadetteria l’ho assaggiata, prima da promosso (vent’anni di terza serie, gli ultimi dei quali vissuti in prima piccolissima persona), poi da retrocesso dopo essersi visto recuperare tre reti in casa dalla Cremonese di Tentoni. Non è una gran sensazione, specie se matematicamente avviene quando Ayrton ci lascia la ghirba; ma due giorni dopo si pensa già a come farà, la società, a riprendersi la massima serie allestendo una compagine attrezzata.
Ma oggi, a trenta e più gare dalla fine e la salvezza ad un punto solo, non è il caso di fasciarsi la testa: anche con gare difficili all’orizzonte.
Buon lavoro, Davide; non ti auguro suerte, anche se ne avresti bisogno. Ma non so quanto tu sia superstizioso. Ti dico solo che averti con noi mi fa piacere. Tanto, almeno quanto il dispiacere di aver visto la fine, more solito per le ultime abitudini bianchenere, riservata a don Julio.
Ultima cosa: il titolo. Ormai da tempo accoppio a questo momento modestamente entusiasmante canzoni che mi hanno segnato. Oggi è il turno di Luigi Tenco. Prendiamo il ritornello in senso ironico o letterale? Davide, a te la risposta.
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