6 maggio 1976. Alle 21.06 di sera il Friuli scompare sotto cumuli di macerie. L’Orcolat, quel malefico mostro delle tradizioni popolari che lascia dietro di sé solo morte e distruzione, ha deciso di svegliarsi e colpire ancora. La terra inizia a tremare, inghiottendo tutto ciò che incontra: vite, sogni, sacrifici. In un minuto crollano case, fabbriche, chiese, negozi. Al suolo c’è tutto quello che si è costruito faticosamente anno dopo anno grazie al duro lavoro e all’amore per la propria famiglia. A vista d’occhio non esiste più nulla. Ma qualcosa c’è ancora e non è scomparso in mezzo ai calcinacci. Quel qualcosa che ha permesso di raccogliere i cocci in silenzio, trattenere le lacrime e pensare solo al futuro. Un futuro indissolubilmente legato alla propria terra, quella piccola patria tanto amata e decantata fin dai tempi antichi. I vecchi paesi non esistonos più ma i friulani sì, eccome se ci sono ancora. Il terremoto purtroppo ne ha portati via 989, traditi da ciò che credevano fosse più sicuro al mondo: la loro casa, il loro posto di lavoro, il loro punto di incontro. Ma nonostante i tanti lutti e il dolore straziante che hanno arrecato, chi è rimasto è riuscito a ricominciare, onorando la memoria del migliaio volato in cielo. L’orgoglio, quel tipico orgoglio e quella poderosa forza interiore che si esprime nel “fasín di besoi” (facciamo da soli), non è morto in quella afosa sera di primavera.
Alle parole e alla disperazione si preferiscono i fatti. Le emozioni vengono nascoste nella parte più celata, quella irraggiungibile agli occhi dei tanti connazionali e stranieri che accorrono per prestare aiuto. Non è tempo di contare i danni, di piangere davanti agli “estranei”, né tantomeno di fronte ai cronisti che documentano, giorno dopo giorno, la catastrofe al bel Paese. È tempo di dimostrare in primis a sé stessi che niente, nemmeno un dramma di simile portata, può spezzare definitivamente quell’orgoglio, quella determinazione, quella speranza di ricominciare. Poco importa se bisogna lavorare come muli fino a tardi ed accontentarsi di una tenda prima e di una baracca poi. È necessario ricostruire ed alzare di nuovo la testa, sempre e comunque, anche se a quattro mesi di distanza un nuovo sisma rimette in discussione tutto, devastando quel poco rimasto. L’importante è rimanere uniti, darsi una mano l’un con l’altro ed attaccarsi a tutto ciò che può strappare un sorriso in mezzo all’inferno.
Dopotutto ai friulani rimangono i simboli. E l’Udinese diventa quello per eccellenza. Un simbolo di riscatto e di speranza. Un motivo per credere che oltre agli incubi esistono ancora i sogni. Ma come può una squadra di calcio che milita da quattordici anni in serie C donare una speranza? Eppure ci riesce. Forse perché i componenti di quella rosa si sentono addosso la responsabilità di dare un segnale a quella terra a cui appartengono o di cui sono ospiti. Il nuovo presidente, l’industriale veneto Teofilo Sanson, affida la squadra nelle mani di un giovane allenatore friulano che aveva vestito in precedenza la casacca bianconera per sette stagioni: Massimo Giacomini. E rivoluzione è. In tre anni quella Udinese riesce a raggiungere la serie A, con un bel gioco e una voglia di rivincita contro la sorte che nessuno riesce a domare. Il mister dalla folta chioma riesce di nuovo a riaccendere la luce, portando i friulani a ravvicinarsi nuovamente alla squadra bianconera, in precedenza abbandonata per seguire le vicende più entusiasmanti delle squadre metropolitane. Perché l’Udinese è e rappresenta il Friuli, quel territorio fortemente mutilato ma mai domo.
Il Friuli è anche il nuovo stadio costruito poco prima dell’Orcolat, è quell’arco che vuole raggiungere il cielo rimasto al suo posto anche dopo la seconda scossa di settembre. Il Friuli è in quell’impianto sportivo che si ripopola nonostante le continue scosse di assestamento, che permette alla sua gente di mettere da parte per un’ora e mezza i problemi e le difficoltà quotidiane. Il Friuli è fatto da persone che vede nell’Udinese il veicolo di rinascita e di senso di appartenenza alle proprie radici. Il Friuli è quella terra che risorge dalle macerie a testa alta e che a distanza di quarant’anni insegna ai propri figli, anche a quelli che non hannovissuto quei tempi bui, a non mollare.
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