Felipe Dal Bello ha rilasciato una lunga intervista ai colleghi del Messaggero Veneto. Il centrale ex Parma e Inter ha ripercorso le vicende della sua carriera e ha parlato del momento di difficoltà attuale dell'Udinese.
Felipe, torniamo indietro di sedici anni. Lo ricorda il suo impatto di quindicenne brasiliano con il Friuli?
«Era gennaio, faceva un freddo cane e il primo allenamento fu sul campo di Terenzano con gli Allievi. Si gelava. Ricordo che un mio compagno si tolse i guanti per darmeli: “Servono più a te che a me”, mi disse».
Gli inizi della sua carriera furono nel calcio a 5, vero?
«Sì, fino a 12 anni. Avevo anche ricevuto offerte per andare a giocare lontano da casa ma mio padre disse di no, che ero troppo piccolo. Ho fatto tanti provini, vissi anche una breve parentesi con il Santos per un torneo in Venezuela. Robinho era mio compagno di squadra, prima di partire venne a salutarci anche Pelè».
Poi che accadde?
«Tre soci, tra i quali Rivaldo, fondarono una società nella mia città, Guarantigueta, e lì sono rimasto quattro mesi, poi arrivò Gerolin e mi portò in Italia. Mi dissero che avrei fatto due settimane in prova, in realtà dopo quattro giorni mi fecero firmare il contratto».
Suo compagno di viaggio, in quei primi anni italiani fu Muntari. Vi sentite ancora?
«Ogni tanto. Lui ha un rapporto difficile con il telefono, a volte passano giorni prima che risponda a un messaggio. Vivevamo in hotel assieme, era timidissimo, sapeva parlare italiano, ma voleva che parlassi a nome suo quando andavamo in giro».
L’ultima volta che vi siete sentiti?
«In estate. Gli ho scritto: “Non trovo squadra, portami con te negli Emirati”. Mezz’ora dopo mi ha chiamato il suo procuratore per chiedere informazioni. Capito? Non mi aveva risposto, ma si era subito mosso per darmi una mano».
Felipe, giovedì compirà 10 anni il suo primo gol in serie A. Se lo ricorda?
«Sì, un colpo di nuca su azione di calcio d’angolo. Un colpo...di fortuna. Non mi ero nemmeno accorto che la palla fosse entrata, ma valse tre punti importanti conto il Messina».
Considerato il suo potenziale poteva fare di più nella sua carriera?
«Sì, ma evidentemente ho avuto quello che meritavo. A Udine vivevo in un’isola felice, andando via ho dovuto confrontarmi con tante problematiche che un po’ mi hanno condizionato, ma non ho rimpianti».
Estate 2009. Lei sembrava dover andare via, poi rimase e il divorzio arrivò a gennaio. Finì alla Fiorentina.
«Una buona soluzione. Se non ha funzionato il perché ha un solo nome: Corvino. A fine anno se ne andò Prandelli, fosse rimasto magari la storia sarebbe stata diversa. Giocavo fuori ruolo, da terzino sinistro, non mi sono mai lamentato».
Poi è stato un turbillon di trasferimenti. Prima Cesena.
«Non venivo mai convocato, poi durante il mese di mercato mi facevano andare in ritiro ma poi finivo in tribuna. A Cesena andai all’ultimo giorno perché saltò Legrottaglie che finì al Milan. Ci salvammo e fu un grande risultato».
Poi Siena, con la macchia della retrocessione...
«In panchina prima Cosmi e poi Iachini. Nonostante la penalizzazione di sei punti rientrammo in gruppo ma a gennaio furono venduti cinque giocatori. Andai in società a chiedere di andare via pure io. Finimmo in serie B, una macchia che avrei voluto evitare nella mia carriera».
Quanto è stata traumatica l’esperienza di Parma con il fallimento del club?
«Parecchio ma ho imparato molto».
Leonardi, ex ad del Parma adesso lavora al Latina. Lucarelli ha parlato di vergogna.
«Leonardi ha sicuramente delle colpe ma non è il solo. Ha sbagliato anche il presidente che pensava solo ad avere visibilità e non ha controllato quello che stava succedendo. E mi fermo qui».
Come è nata la soluzione Inter?
«Nel mercato di gennaio c’erano parecchie squadre importanti, Milan, Roma e Inter che cercavano un difensore. Io non sarò un fenomeno, ma pensavo di poter essere utile. Feci una chiamata a Cassano, che ha molte conoscenze nell’ambiente nerazzurro, e un paio di giorni dopo è arrivata la chiamata dell’Inter».
Ci spiega una volta per tutto il cambio di cognome da Dal Belo a Dal Bello?
«Perchè è corretto con la doppia “L”. Quando i miei antenati arrivarono in Brasile furono registrati all’anagrafe in maniera sbagliata. Io ho uno zio che si chiama “Dal Berio”, tanto per dire».
Non era anche un motivo in più per pensare a una chiamata in Nazionale? E c’è mai stato un momento in cui è stato vicino all’azzurro?
«Non nego di aver sperato in una convocazione. Nel biennio di Donadoni qualcosa c’è stato. Rientrato da un ritiro Iaquinta mi disse che mi stavano seguendo. Poi però non c’è stato un seguito anche perchè ho avuto un paio di stagioni sfortunate con qualche infortunio di troppo».
Felipe è scontato dire che il suo allenatore ideale rimane Luciano Spalletti?
«Più che scontato è ovvio. Lo raccontavo l’altro giorno ai compagni. A fine allenamento mi prendeva da parte e mi sottoponeva a un’ora di allenamento sulla tecnica di base. “Devi migliorare la rapidità e quel piede destro”, mi diceva. E se non poteva lui, si faceva sostituire dal vice Domenichini. Gli devo molto e non solo perchè mi ha fatto esordire in serie A».
E che ricordo ha dei suoi maestri?
«Splendido. A fine allenamento Bertotto e Sensini mi prendevano sempre da parte e mi spiegavano dove avevo sbagliato o come dovevo comportarmi in quella situazione. Oggi non è più così, i tempi sono cambiati e i giovani stanno sulle loro».
La sua carriera è cominciata a Udine. Finirà anche in Friuli?
«Questa è la mia speranza».
Ma visti i risultati non è che è rientrato alla base nel momento sbagliato?
«Va detto che sono arrivato in un momento di cambiamenti. Secondo me è il momento giusto perchè posso dare un aiuto al gruppo ben sapendo come si lavora all’Udinese. Questo gruppo da qui in avanti può solo migliorare attraverso anche altri innesti».
Quanto hanno pesato gli infortuni dei vari Zapata, Guilherme, Kone, Merkel e Domizzi?
«Sicuramente hanno condizionato non poco il lavoro del mister, specialmente quello di Zapata perché le alternative, per quanto di valore, non hanno ancora la necessaria esperienza a livello di serie A. Mi riferisco a Perica e Aguirre, ovviamente».
Cosa risponde alle voci che raccontano di uno spogliatoio non troppo unito?
«Sono i soliti discorsi che si fanno quando i risultati non arrivano. Io dico che a volte, uno spogliatoio caldo, può essere anche positivo. Qualche contrasto può servire in settimana per alzare la tensione in vista della partita. Questo è un gruppo di bravi ragazzi che rispetta le consegne».
Felipe, ma lei si sente leader o il leader lo sceglie lo spogliatoio?
«Penso di poter essere un giocatore di riferimento per i più giovani, come tanti altri del resto. Anche quando ero capitano io mi sono sempre e solo interessato al gruppo. Io credo che un leader sia tale se rispetta i compagni, il resto viene di conseguenza».
Classifica e calendario alla mano vi rendete conto che non potete sbagliare le prossime due partite con Sampdoria e Chievo?
«Sì, se non vogliamo finire nei guai è arrivato il momento di non sbagliare più».
L’insoddisfazione che si respira un po’ in tutto l’ambiente a cosa si deve secondo lei? Al fatto che la tifoseria è stata abituata troppo bene negli ultimi anni?
«Premesso che da due campionati l’Udinese conclude la stagione nelle zone medio-basse della classifica, non sempre si può pretendere di lottare per l’Europa. Ci vuole un po’ di equilibrio e capire che il periodo di transizione può anche essere più lungo».
Ma è vero che lei con addosso la maglia dell’Udinese rende di più?
«Non lo so, non spetta a me dirlo. Mi auguro solo che con questo ritorno a Udine si chiuda il cerchio della mia carriera. Non vorrei ripetermi perché rischierei di passare per ruffiano, ma quando nel 2010 me ne andai e scrissi una lettera ai tifosi, lo feci perché l’Udinese e il Friuli mi hanno dato tantissimo».
Felipe, non parliamo soltanto di calcio. A 31 anni è troppo presto per cominciare a pensare al post-carriera o qualcosa ha già in mente?
«Da un paio di anni con un mio amico ho cominciato a fare degli investimenti nel campo dell’abbigliamento. Non dico di più. Poi, magari, non escludo nemmeno di restare nel mondo del calcio, magari all’Udinese visto che resterò a vivere in Friuli».
E non c’è l’idea di regalare un fratellino o una sorellina a Beatrice?
«In questo momento no. A me piacerebbe molto, ma devo tenere in considerazione anche le esigenze di mia moglie. Caterina, da quando ha 13 anni, è abituata a lavorare. Quando ci siamo sposati le ho detto spesso che non aveva più la necessità di avere un lavoro, ma lei non vuole rinunciare alla sua autonomia economica. E allora per adesso non se ne parla. Magari più avanti...».
Autore: Luca Trusgnich
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