Udine - Eddie Delegal saluta e torna in Georgia. Non ha convinto nessuno: né la dirigenza, né Lino Lardo, né molti fra i suoi compagni. Delegal spreca un’occasione importante: primo contratto da professionista in una piazza che l’avrebbe aiutato a crescere senza pressioni, alle dipendenze di un allenatore-professore che ne avrebbe smussato i difetti ed esaltato i pregi. Invece si è spento in campo, forse troppo pesce fuor d’acqua, ed a chiusura della sua breve avventura, come detto, ci resteranno tre tiri da fuori (contro l’Alma Trieste) troppo corti per toccare anche il ferro. Ciao, Eddie, and good luck.

A Udine arriva Stanley Okoye. Bando alle ciance, ci voleva un’ala con le mani piene di punti, pronta all’uso ed ecco l’americano di passaporto nigeriano, ex cadetto di Virginia Military. Arriverà in tempo per esordire in campionato, mastica già la lingua italiana della pallalcesto, meno mali di testa per coach Lino. Speriamo.

Nel frattempo l’A.P.U. perde pesantemente a Castelfranco contro la Scaligera Verona. Troppe assenze dalla parte friulana, ma due tempi di sostanza prima di prendere un’imbarcata nella quale Frazier, Boscagin e Portannese fan quello che vogliono (52 punti in tre). Poco male, solo un allenamento nel quale si distinguono gli elementi del quintetto base assieme a Okoye, in particolare l’osservato speciale Tyler Laser (a tratti imprendibile per i gialloblù di Frates) e microwave Pinton. Da settimana prossima sarà campionato, e rien n’ira plus.

Ma il basket non si ferma nella piccola patria.

In tutta Europa si celebra il rito della Supercoppa nazionale, e in Spagna, a sorpresa, trionfa il Clùb Baloncesto Gran Canaria. Gli isolani di Las Palmas, contro tutti i pronostici, fanno fuori in semifinale i baschi del Saski Baskonia di coach Sito Alonso, ma soprattutto di Jaka Blažič e del Mago Andrea Bargnani; non paghi, in finale sconfiggono il Barcelona, con una sontuosa prestazione di Bo McCalebb. Ma il miglior giocatore del torneo è un altro americano.

A novembre 2015, Kyle Kuric, guardia tiratrice di Evansville nell’Indiana, dopo il diploma a Louisville e un passaggio all’Estudiantes è una colonna di Gran Canaria. Ha ripetuti mali di testa, da guerriero gli dà poco peso. Poi ha un malore, si fa visitare e gli viene diagnosticato un menangioma. Subisce tre interventi, lotta fra vita e morte per qualche giorno, ma Kyle non è un classico calciatore ignorante, dal 2010 promuove “Kyle’s corner for kids”, in cui in prima persona cerca di donare un giocattolo ed un sorriso a bimbi malati di cancro. Capisce perfettamente, dal primo momento di cosa parla, il medico di fronte a lui.

Tre interventi, anche se il menangioma è benigno. Lotta, Kyle: dopo sei mesi torna a giocare. Come prima, più forte di prima. Ed in finale, nell’Herbalife Gran Canaria che distrugge Barcelona, mette a referto dieci punti, che gli valgono la coppa da MVP. Una bella storia, di quelle da scrivere in bel corsivo nel libro da leggere ai nostri figli, la sera.

Ed infine, a corollario di una strana settimana, un ritiro che (pur se nell’aria) mi ha rattristato.

Nella stagione in cui hanno salutato Kobe Bryant e Tim Duncan, un altro guerriero ha detto “okay, that’s it”.

Dopo 1462 gare in NBA, di cui 970 in Minnesota e 370 a Boston; un anello nel 2008 con i Celtics; una media punti di 18 a gara, e dieci rimbalzi, e quattro assist a partita; dopo ventuno anni di spettacolo, Kevin Garnett si toglie le scarpette, appende la canotta dei Timberwolves e indossa giacca e cravatta.

Okay, ha quarant’anni “the big ticket”, ma la mia NBA 2.0 si chiude qui. Kevin è meno appariscente, forse, di Tim o Kobe, ma l’ho sempre trovato un fattore di dominanza rara. Viene eletto MVP a Minneapolis, si sposta a Boston dove con Pierce e Ray Allen vince il titolo. Non grandissimo nei Nets di Brooklyn, migliore il suo ritorno a Minneapolis, dove a cinque giorni dal camp pre-season è salito da coach “Tib” Thibodeau e dal CEO Casson per dire “no màs”, basta così. Per Minnesota una perdita pesante, aldilà dell’apporto tecnico: Garnett è un vero uomo-squadra, uno che ha parlato a muso duro con tutti gli avversari, che ha difeso i suoi da tutto e tutti; il re del “trash talking”, con rivali e tifosi avversari. Insomma un vero e proprio monumento. Che mi mancherà.

Ho letto da qualche parte che diventi cestisticamente vecchio quando tutti i giocatori ritratti nei poster della tua camera si sono ritirati; io sono arrivato, come detto, a due giri di valzer di ritiri. Amen.

Perché sono pronto ad una stagione in bianconero che possa riconciliarmi con lo sport più bello del sistema solare. Perché la strana settimana non è poi così strana; perché I fu**ing love this game.

 

Sezione: Basket / Data: Lun 26 settembre 2016 alle 14:00
Autore: Franco Canciani
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