Gambero Udinese. Al Friuli la squadra si congeda così, con tre passi all’indietro. Tre come i punti persi in una manciata di minuti. Al fotofinish si manda ancora al diavolo la continuità, parola misteriosa che è diventata un tabù. I calciatori la invocano, la promettono, la vogliono. I tifosi la sperano. Ma la continuità è come una bella donna che non si concede mai e che sfugge continuamente, prendendosi gioco di tutti quelli che cercano di conquistarla. D’altronde il modo di porsi fa la differenza. Non è certo un mistero che l’Udinese sia oramai la specialista degli approcci sbagliati. Se l’atteggiamento non è propositivo e la paura la fa da padrone non si può pretendere di raggiungere quella continuità tanto bramata e ricercata. Chiusi i conti, finiti i novanti minuti, si resta sempre a mani vuote. Allora le parole al vento e la continua speranza di invertire la rotta se ne va, sempre più lontana, facendo male. Può anche cambiare il direttore d’orchestra ma il copione è sempre lo stesso: tre anni vissuti al cardiopalmo sui saliscendi delle montagne russe. Stramaccioni, Colantuono, De Canio e ora Iachini. Nome diversi ma un destino comune, fra vittorie insperate e tonfi inaspettati. Sembra quasi che l’Udinese sia entrata in un circolo vizioso da cui non riesce ad uscire. Il cambio di passo che tutti si aspettano viene posticipato domenica dopo domenica. Nel frattempo si accumulano le promesse e sale vertiginosamente il debito di riconoscenza verso una tifoseria esasperata dai continui black out. Finora non si è ancora trovato la medicina adatta per curare un malato cronico. Non c’è nulla da fare: cala il sipario e sopraggiunge quel blocco mentale che imballa le gambe e fa rimanere costantemente sulla difensiva, in disparte, per quasi ‘90. Certo, le qualità contano ma la squadra di Maran è la dimostrazione vivente che la testa può far gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ecco allora che i bianconeri contro il Chievo approdano nuovamente a Lilliput e ridiventano piccoli piccoli. Succede sempre quando gli avversari non vengono considerati giganti bensì facile preda.
Un caso? Forse no. I scivoloni contro i club che puntano alla salvezza non sono di certa una novità. La sconfitta casalinga contro i clivensi non può che essere l’ennesima prova che comprova la teoria. San Oreste stavolta non è bastato. In tredici minuti la frittata è servita. Dall’82 al ’95 si consuma la rimonta di un Chievo che ha il merito di crederci fino alla fine. Un Chievo che imposta la partita come se giocasse fra le mura amiche e di certo non può vantarsi di essere il Barcellona del tiki taka. L’Udinese si presenta invece in formato trasferta; subisce il gioco e tenta di ripartire ma non convince. Anzi, tradisce e delude il suo pubblico, che ha il grande merito di supportarla fino alla fine, nonostante il gioco sia tutt’altro che entusiasmante. Lo tradisce nel momento meno opportuno, quando va in scena il duetto fra la Curva e i Distinti che urlano “mi innamorai di te”. Nemmeno l’amuleto Perica, gettato nella mischia per cercare di replicare i colpacci di Empoli e Milan, non funziona. Niente Re Mida. Le palle che tocca non si trasformano in gol. Troppo poco il minutaggio a disposizione del croato. Niente regali che piovono dal cielo o che semplicemente dalle parole del capitano Danilo si tramutano in realtà. Cosa rimane di questo pranzo domenicale andato di traverso? La sicurezza di ripartire con un pubblico deluso ma al proprio fianco. La voglia di rialzare la testa e di rifarsi con una Fiorentina cotta a puntino. Ma per favore ora basta con le parole e i luoghi comuni. Basta con le promesse puntualmente non mantenute. Ora servono i fatti e una giusta dose di cattiveria. “In ogni attività la passione toglie gran parte delle difficoltà”. Erasmo da Rotterdam ci tramanda un’importante lezione di vita (e di calcio). Capito Udinese? Squadra avvisata mezza salvata.
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