Va bene. Avete ragione. Tutti.

Va bene: l’Udinese, per come gioca, fa schifo ad un piede ignudo.

Va bene: la tifoseria merita di più, così come la storia, la maglia:noi.

Va bene: di progetto-calcio non v’è più gran traccia, e lo dico con la morte nel cuore. E ne parleremo.

Ma vorrei iniziare questa paginetta con due accenni al mondo, che non è Udine. E dico, lo dico, per fortuna.

A Bologna qualche malato di mente ha steso sul campo d’allenamento del Bologna, a Casteldebole, tre croci recanti i nomi di Fenucci, Bigon (Riccardo) e Di Vaio: tre dirigenti che, agli occhi dei suddetti richiedenti-TSO, meriterebbero il de profundis per la colpa, gravissima, di aver condotto la squadra al terz’ultimo posto della classifica; un desiderio di scomparsa virtuale, per una retrocessione altrettanto virtuale quando  si è a neanche metà campionato e con la quart’ultima un punto sopra.

Qualche ora a nord, un giovane collega è morto dopo che un altrettanto richiedente-TSO ha deciso che la sua maniera di celebrare il proprio Dio era quello di sparare alla cazzo in mezzo alla gente. E per la prima volta uso un termine scurrile, perché la materia lo merita. E anche a proposito di questo da molti angoli si invocano draconiane pene non facendo riferimento al crimine ma al credo.

Ecco: quando si parla di calcio dobbiamo rimanere così come siamo: goliardici, leggeri, certe volte pesanti ma senza retropensieri. Noi friulani, ché l’insulto più grosso che possiamo fare ad un amico, fratello islamico è ‘mangje el purcìt, cocàl!’. Noi friulani: qualcuno chiama Egli ‘pipinotto’ e magari lui si offende, ma alla fine di cosa stiamo parlando se non di uno sfogo entro, molto dentro, le righe...

Noi, quelli di schiribicilu; che durante tante gare perse siamo lì,immersi nelle bestemmie dei meno pazienti ma assieme a loro abbiamo visto tante di quelle partite dell’Udinese da poterci andare, stendendole in terra un minuto=un metro, da Roma a Pechino via Mumbai; noi, quelli che due ore dopo la gara chissene.

Noi che via Zapata e dopo un anno ‘dovevamo tenere Zapata’; noi, che il calcio è importante ma ‘utu meti la fri**?’. Noi, pragmatico e sognatore popolo bianchenero.

Insomma, continuiamo a camminare leggeri, sulle macerie dell’Udinese che ormai, toccando fondi e continuando a scavare, ci ha fatti arrivare dall’altra parte del globo. Senza problemi: magari contestando, facendosi sentire, piuttosto ignorando troppe teste (in campo e fuori) che forse i nostri colori di questi tempi li meritano modestamente; non ci sono alternative, ché noi siamo oltre. Oltre.

Domani si gioca a San Siro, alle sei del pomeriggio di un sabato prenatalizio. Un orario che per il friulano è da aperitivo con gli amici, non mai di calcio nella massima serie; si gioca contro la psico-Inter, una squadra riuscita nell’impresa di non battere in casa una squadra forte, forse, quanto una medioclassificata in serie A. Sarà avvelenata? Depressa? Mezz’e mezzo? E come affronterà la gara la banda di Nicola? Ancora una volta ammassando sacchi di sabbia di fronte alla finestra… Scusate, alla rete?

Probabile. Ed è inutile che mi ricordiate che fra una settimana ricorrono ventuno anni, tanti o pochi, da quando al novantesimo di una partita meritatissima Bachini metteva sulla testa di Bierhoff la palla del primato. Noi siamo ancora quelli di allora; i protagonisti, quelli no.

Una riga sulla bicchierata con la stampa: evento ad invito, tu sì, tu no, tu neanche morto. Non splendida, la cosa, ma ognuno si comporta come meglio crede. Ho visto qualche video trasmesso dalle nostre prime firme (presenti all’evento): la mia sensazione, interna, è di vuoto. Perché non sento parole che dicano, umane. Ma sono io a non capire: sono un piccolissimo imprenditore, preoccupato della fatturazione elettronica (e dei relativi costi), di come spedire i nostri vini in Cina, i massimi sistemi mi sfuggono, così come alcuni accenni.

Già: in società si dimostrano stupefatti, per una rosa di valore e tanta, troppa sfortuna. Io alla sfiga (e due) non credo, mi spiace; se si preparar una gara per non tirare mai in porta e, presa rete si ha la bravura di livellarla subito, il raziocinio direbbe di tenere la palla e non abbassare la linea difensiva all’altezza dei sedici metri. Gasperini, bravo, ha detto ‘in questi casi bisogna solo avere pazienza’. Servìti.

Guardarsi indietro non giova, nel breve e nel lungo periodo; rientra il nazionale cecoslovacco, mica del Liechtenstein e forse in mezzo rivedremo un po’ di quella garra charrùa smarrita per strada.

Vedete quanto sono ciuoto? Quanto ancora io ci creda? Lo so, sono così. Non minaccerei mai qualcuno con una croce deposta a monito, penso ai genitori di Antonio ed al loro strazio che è anche il nostro, di fronte ad una scrivania vuota in una redazione silente.

Perché le parole hanno un peso, le azioni ancor di più: il calcio, per fortuna, no.

Sezione: Primo Piano / Data: Sab 15 dicembre 2018 alle 07:13
Autore: Franco Canciani
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