Ad Udine, Behrami ha impiegato pochissimo tempo a diventare un punto di riferimento per il gruppo e, intervistato ai microfoni di DAZN ( ha spiegato cosa vuol dire essere il capitano della squadra: “Indossare la fascia di capitano di una squadra di Serie A è un ruolo importante. Se dovessi mostrarmi io negativo so che porterei appresso con me metà della squadra forse, o anche di più”.
Behrami ha incontrato tanti capitani importanti nel corso della sua lunga carriera: “Sono arrivato alla Lazio che avevo Di Canio per esempio, un trascinatore al di fuori. Aveva la gente, un esercito di tifosi dietro di lui. Quello che forse mi ha dato di più nella mia carriera è Paolo Cannavaro a Napoli. E’ stata una persona non solo in campo mi ha disciplinato nei momenti che avevo di troppo agonismo in allenamento, ma soprattutto nella vita fuori, sul come imparare a vivere una città come Napoli, perchè Napoli è complicata”.
Nel bagaglio dell’avventura a Napoli, anche una dose di scaramazia: “I capelli sono una cosa scaramantica assolutamente. Nel 2009, quando mi sono fatto male, è stato proprio l’unico periodo nel quale ho tolto il biondo. Tutti mi chiedono ‘A 33 anni hai ancora questi capelli?’ ed io rispondo di si”.
Behrami ha sulla gamba destra un tatuaggio che racconta tanto delle sue origini: “Sono nato a Mitrovica che è un luogo molto particolare. Siamo divisi da un ponte, da una parte ci sono i serbi e dall’altra i kossovari. Sono nato lì, penso sempre a tutto quello che hanno sopportato i miei parenti. Le vere cicatrici le hanno loro, perchè noi ci facciamo male e ci rimettiamo in piedi e in qualche modo riusciamo a giocare, mentre quando torno da loro vedo che comunque negli occhi che hanno vissuto un qualcosa che non si può cancellare. Se tu da bambino o da adolescente devi scappare sulle montagne durante la notte, o senti una granata che parte e non sai dove cade, è inevitabile che la tua vita venga cambiata. E’ questo quello che loro hanno vissuto e che mi fanno vivere ogni volta che torno là, ti fanno tornare alla vita reale”.
Da piccolo il trasferimento con la famiglia in Svizzera: “Quando siamo andati in Svizzera l’inizio è stato difficile. Non sapevamo la lingua, ma in seguito ci siamo integrati ed è diventata la nostra quotidianità. La loro cultura è diventata la mia cultura”.
Behrami con la Nazionale elvetica ha vissuto momenti buoni ed altri meno entusiasmanti: “Mi è dispiaciuto che in tanti momenti nei quali si è perso tornavo ad essere l’albanese, mentre quando si vinceva eravamo tutti svizzeri. Ci sono state piccole cose che mi hanno ferito, ma non posso provare cose negative per una nazione che mi ha dato tutto quello che ho avuto nel calcio e come uomo”.
La lunga avventura con la Nazionale svizzera sembra essere giunta al capolinea: “Finito il Mondiale ho parlato con l’allenatore e abbiamo deciso di andare avanti ancora due anni perchè mi sentivo importante, loro mi davano importanza. Mi chiedevano tutto in allenamento, di cercare di aiutarli ed io sono stato sempre aperto a questa situazione per il futuro, pur non essendo fisicamente al 100%. Dopo tre settimane, al rientro dalle vacanze, l’allenatore mi ha chiamato e detto che non voleva convocarmi più. Se me l’avesse detto prima ne saremmo usciti tutti meglio, ma non era un problema. Non era una scelta sua, altrimenti vorrebbe dire che non capirei le persone, che non le riconosco, che non so qual è il bene e qual è il male”.
Il 28 gennaio scorso, contro il Genoa, il goal in Serie A atteso quasi dieci anni, il terzo nel campionato italiano: “Sicuramente più importante di quello segnato con la Lazio. Allora ero ancora un ragazzino che cercava la sua dimensione, anche a livello umano. Anche nella reazione dopo aver segnato si vede che adesso sono più pacato e tranquillo”.
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