Non ho mai nascosto la mia poca stima verso il cosiddetto attuale Cittì della Nazionale italiana di calcio. Purtroppo l’età mi rende volubile, ma anche elefantìaco nel ricordare il giropalla visto a Udine: costui giunse dopo 15 giornate di Hodgson, e “pronti-via” Cimirotic del Lecce ci castigò. Quell’anno l’Udinese, praticamente in serie B dopo la sconfitta sotto l’acqua del Bentegodi contro il Verona di Malesani (che alla fine in cadetteria scese sul serio), con le vittorie contro Venezia e soprattutto il rigore allo scadere a Lecce si salvò concedendo quasi inerme campo, spalti e scudetto alla Juve: era il 5 maggio del 2002.
Per me quindi è, resterà sempre quel sampdoriano un po’ pieno di sé che riteneva, e ritiene, il proprio credo calcistico importante, più importante, al di sopra di ogni altra cosa: incluso i giocatori da disporre in campo.
Presunzione. Andare al Bernabeu, dove per l’amor del cielo ci sta anche di farsi mettere sotto da quella che il Bro chiama “una squadra di basket” tanto è facile il loro tiki-taka, schierando quattro punte è presuntuoso; sbattersene quando i giocatori, il 7 settembre scorso, si riuniscono nello spogliatoio e gli dicono “mister lei non entra” è presuntuoso; inserire nella partita decisiva per una nazione intera due giocatori completamente nuovi rispetto alle sue scelte precedenti è presuntuoso; ed è presuntuoso presentarsi in sala stampa, dopo l’italianissimo maracanazo, con novanta minuti di ritardo: senza dire nulla e soprattutto senza giapponesizzarsi rimettendo il proprio mandato nelle mani del compare Tavecchio.
Uso il termine compare, ed è un’iperbole: ma i giornali economici tratteggiano la montagna di denaro persa dal Paese a causa dell’ignavia, della protervia, dell’incapacità di un gruppo tutto sommato modesto.
E si parla di miliardi di euro: diritti televisivi, sponsorizzazioni, premio-partecipazione al torneo; e indotto, indotto, indotto. Bravi gli snobbissimi italiani: quelli che “odio il calcio”, quelli che “meglio un libro”, quelli che “gli sta bene, a me piace il curling”. Costoro, che le medaglie olimpiche e mondiali le contano e non le pesano (avranno anche ragione), dovrebbero considerare che i costi degli sport cosiddetti “minori” sono sostenuti in gran parte dal gettito calcistico. Adesso il ministro Lotti, che invoca “unità d’intenti”, ci spiegherà dove pescare i soldi per mandare ai tornei internazionali i campioni italiani paralimpici, gli schermidori, i ragazzi dell’atletica. Magari gli chiederemo di autotassarsi?
Tavecchio ha pensato male: non tanto nello scegliere una persona per carattere e capacità non adeguati, ci sta dovendo spendere qualche centesimo in meno. Ha pensato male quando ha ritenuto il movimento calcistico italiano, ormai fuori dalla top-10 mondiale, ancora parte dell’élite mondiale.
Fosse così, il modesto arbitro iberico d’ieri sera avrebbe sibilato il rigore su Parolo, cambiando la storia del match. Invece se n’è fregato, come sui due bagher nella area azzurra, dimostrando tutta l’inadeguatezza della scelta Uefa. E badate bene, al novantesimo a recriminare sulla direzione di gara sarebbe dovuto essere il compassato allenatore scandinàvo. Non Ventura, che già all’andata ruminava contro l’arbitro senza pensare autocriticamente che l’Italia era cascata con tutte le scarpe nel tranellino gialloblu.
Sapete cosa penso? Che la piccola Udinese, minacciando giustamente una federazione straniera per il caso Behrami (infortunato ma egualmente convocato) ha mostrato più cuore, garra, dignità e desiderio di ottenere rispetto della nostra supìna federazione, più impegnata nei soliti accordi (sol settima) che a difendere il movimento in campo internazionale.
Mi parlano di anno zero, di primo passo verso il futuro. Ma quale? In Italia non si dimette nessuno, altrimenti da Lotti a Malagò, da Tavecchio a Ventura sarebbero già dovuti salire sul primo torpedone per il paesello. E forse ci si dimentica che recentemente (ma ai mondiali si arrivò) ci hanno fatto fuori corazzate come Nuova Zelanda, Slovacchia, Costarica.
Ho un’impressione: che il calcio italiano si sia fermato a Berlino, in quella serata magica che ancor oggi costituisce lo spartiacque fra un prima ed un dopo. Nel prima uno come Ventura avrebbe dovuto pagare il biglietto anche solo per assistere ad un allenamento, altro che ricoprire il più pesante ed ingrato compito dello sport azzurro. Ma anche in quel dopo Prandelli e Abete, contemporaneamente, salutano e se ne vanno. Subito. Altroché “dobbiamo parlarne”.
Ma li ho capiti: Ventura cercherà una soluzione pacifica ed appagante per rescindere un contratto ancora in vigore senza rinunziare ai dindini; Tavecchio invece attende che qualcuno gli dica “véh véh, mica è causa tua...”.
Però in fondo è vero: il dopo-2006 da oggi avrà un dopo-dopo. Finita l’epopea della difesa “BBC”, di Buffon, di De Rossi che ieri in panca aveva più sale in zucca dell’attempato signore in cravatta. Quello che evidentemente ha voluto buttare sul tavolo tutte le fiches, lasciando la poca fantasia italiana in panca se non in tribuna: da Solna a Milano. Gli ha detto male: e come nei tornei di poker lui e i boss si alzino, salutino i concorrenti ancora in gara e si tolgano dai piedi.
E nessuno osi criticare il non-gioco della Svezia: l’Italia era più forte, era dovere azzurro fare le gare e portarsele a casa. Invece zero gol, poche occasioni da rete, una gara (quella di San Siro) che non considereremmo buona nemmeno per la nostra povera Udinese ma qualche collega ne ha parlato come di partita eroica; io invece dico che la Svezia gioca così, al netto di Ibra, da quando l’uomo inventò il cavallo. E se contro una squadra fisica ed alta di statura giochi fisico e a palle alte, dieci su dieci ci sbatti contro.
E quando a giugno-luglio le nostre signore, o i nostri compagni, cinguetteranno “ci facciamo un giro stasera”, ma non ne avrete voglia pensateci già da domani: o sarete costretti a rispondere “no scusa, c’è il calcio: giocano Svizzera-Marocco e Svezia-Panamà”.
Il cielo è meno blu sopra Mosca: perché un gruppuscolo di giocatori modestamente diretti in panca da un signore inadeguato ci ha fatti neri: loro, più che le avversarie.
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