Due settimane negli States: dodici stati, tante miglia in macchina ed in aereo, tanti colleghi ormai amici, il solito streaming acrobatico della domenica mattina (locale) per godere di un’altra sconfitta (immeritata): ne abbiamo già parlato.
Domani si impacchetta quanto rimane di me (non mi lamento, anzi! Ma dir che non sento mancanza di casa significherebbe mentirVi) e si rientra: in tempo per godere, mi dicono sotto la pioggia, dell’ultima invasione ospite all’arena di Rizzi. Già: arriva la capolista, con al seguito migliaia di tifosi molti fra i quali non hanno ancora superato lo choc della retrocessione in B, prima di esultare per una serie di scudetti infinita, meritata e imbarazzante (per la concorrenza).
Ho letto, in settimana, richiami a vecchi e prolifici attaccanti bianchineri, contraltare alle bagnatissime polveri dei vari Duvàn, Cirillo, Stipe. Crudele ed ingrato paragone. Segnare una rete in duecento partite, però, porta poche giustificazioni.
Delneri li protegge, qualcuno li incita a mostrarsi uomini: dopo il Sassuolo, per me, vale niente. Ma sono uomo d’altri tempi ed altre latitudini che forse fa eccessivamente all’amore con l’onore; pretendendo troppo dal calcio d’oggi, fatto di professionisti all’ennesima potenza. Lo stesso Conte, cuore rosastellato vinovese, di fronte a qualche miliardo di ambrosiani yuen diverrebbe senza un plissé il trainer degli (ex-?)“odiati” nerazzurri milanesi. Dunque cosa pretendere da un manìpolo di ragazzi, modestamente impostati ancorché incapaci, all’apparenza, di dare giusta interpretazione a troppe gare disputate di fronte al pubblico amico?
Per sentirmi un po’ a casa, navigo e dal “podcast” de “Le Iene” guardo l’intervista a un giocatore stabiese, già bianconero-vero, che racconta i suoi ultimi cinque anni di calvario. Mi si apre un mondo: e mi si chiude la vena.
Già: nel 2009 Fabietto corona il sogno di giocare coi colori del suo cuore, quelli partenopei; gioca una buona annata, segna una dozzina di reti poi, ad agosto, se ne va all’odiata Juventus di Vinovo. Apriti cielo: i tifosi napoletani insorgono, insultano lui e la famiglia; bruciano maglie, foto, invocano la falce definitiva sul centravanti col 27. Lui non reagisce. Solo dopo cinque anni si scoprirà il motivo: lo stesso che convinse De Laurenti(i)s a cederlo. Fabio farà una buona carriera fra Juventus, Torino e Samp; si impegnerà sempre al massimo, nessuno può sospettare della croce che si porta dentro. Fino ad oggi.
Si chiama stalking: una persecuzione senza motivo a danno di persona cui ci si sente morbosamente attaccati. E ancor peggio, perpetrata da un agente della polizia postale cui il giocatore si era rivolto per segnalare alcune lettere anonime e minatorie ricevute da lui e dalla famiglia.
Vi risparmio la storia, guardatevi l’intervista: soprattutto le lacrime di Fabio Quagliarella nel raccontare quello che per anni ha dovuto, saputo tacere. Un po’ per non inquinare indagini mai svolte (proprio dal colpevole), molto perché quelli come lui non cercano di accampare alibi quando sanno di avere la coscienza pulita.
Eppure sarebbe stato semplice dare in pasto ad un giornale qualsiasi sin da subito la sua storia, cui forse nessuno avrebbe creduto. Ma no: hombre verticàl, fino in fondo. Anche oggi. Quando molti fra i tifosi che lo avevano “sputato” ne chiedono la “recompra” da parte del cineimprenditore.
Tardi: chi lo ha avuto fra i giocatori della propria squadra, anche solo per un anno, non può non averne intuito le doti: tecniche, caratteriali, morali. Furono lui e Totò, una sera di gennaio del 2009, a risollevare i bianconeri da una lunghissima crisi matando proprio la Juventus: e come ci si può dimenticare la sua esultanza in ginocchio sotto la nord, accanto alla bandierina?
Ecco, mi dico: uomini veri ne esistono ancora, in giro. Magari anche fra gli attuali bianconeri udinesi, ma chiedergliene prova per la settantesima volta in tre anni mi pare prenderli e prendersi in giro. Facciano come ritengono. Ma a loro dico, magari con sottotitoli in spagnolo, portoghese, arabo o islandese di guardarsi quell’intervista.
Del Sassuolo sappiamo: di domenica immaginiamo. Che sia almeno una festa di sport, e che gli ospiti-locali si trattengano ricordando che, in fondo, appartengono a queste terre, con la libertà di gioire per una squadra forte anziché soffrire per una di più modesti trionfi.
Avrei voluto intitolare questo pezzo come un bellissimo romanzo di Elio Vittorini, “uomini e no”: era introspettivo e resistente, ma il titolo era riferito alle due parti coesistenti in ognuno di noi; quella non umana che spinge le persone a commettere atti spesso abietti; quella invece umana, su cui le ritorsioni (nello specifico quelle naziste su donne, vecchi e bambini) agiscono spietatamente.
Siccome però non voglio dare pensieri al manovratore bianconero ed ai suoi pupilli, tutti fra i quali sapranno poco di questo autore aretuseo, mi sono contenuto. Delneri ne sia felice. Uomini e forse. Già: l’avverbio è rivolto a loro dopo mille “purtroppo” e altrettanti “ormai”.
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