È sempre bello sentir parlare Davide Micalich, a tempo perso A.D. e general manager dell’A.P.U. Udine, ma di professione baskettaro convinto ed innamorato.

Non abbiamo perso occasione quindi per assistere alla conferenza tenuta questo pomeriggio presso il polo Friuli Innovazione, nella quale ha ripercorso le tappe di una vita scandita da rintocchi dettati dalla palla a spicchi.

Tralascio i dettagli. Ma fluente Davide: dall’infanzia, alla giovanezza veneziana; alla laurea, ad una carriera (volutamente?) onesta ma in categorie inferiori alle sue capacità; al torneo organizzato per riconoscenza e passione in onore di Claudio Malagoli, che lo avrebbe portato al primo ruolo dirigenziale in seno alla Snaidero-II, quella di Edi. Piccolo inciso: Malagoli è stato, e Davide lo ha ricordato, uno dei più bei giocatori ad indossare la casacca udinese. Ricordo distintamente (ma era un’altra epoca) la pulizia stilistica e l’eleganza perfetta del rilascio della palla, che invano io, bimbo di sei anni, tentavo di imitare. Ci fece male militando con Vigevano quando a Udine giocavano Giomo, Garrett e Gallon in maglia biancoverde Mobiam, fine anni settanta; un maledetto incidente ce lo tolse, alla fine degli anni ’80 quando aveva solo trentasette anni.

Oltre un decennio per Micalich alla Amatori Pallalcesto Udine, fino alla cessazione dell’attività sportiva avvenuta nel 2011 e il suo passaggio ai “rivali” dell’A.P.U. di Pres Pedone. Dalle categorie inferiori, alla mancata promozione dalla B alla A2 di due stagioni or sono; l’occasione di giocare in serie A acquisendo i diritti, ad esempio, di Roseto, e la decisione di giocarsela ancora in serie cadetta per vincerla, la categoria, senza regali o acquisti: perché ribadisce Micalich, “acquisire diritti sportivi significa accollarsi anche i debiti della squadra cedente; a quel punto non sapendo bene cosa si troverà, meglio rimediare ai propri errori che prendersi carico di quelli altrui”. E Bergamo, quella gara-4 che poteva sancire la seconda delusione di fila ma invece fu la genesi del sogno maturato a Montecatini ed esploso definitivamente nell’ultima parte di questa stagione. La serie A, col peccato originale della coppia sbagliata di americani scelti in estate (“cadaveri”, li definisce il GM ridendo); poi la firma di una stella come Ray che mal si attagliava agli schemi di Lardo; infine un ordinato estone che su sei partite giocate ha condotto la squadra a cinque vittorie di fila... E non è finita: sabato sera arriva la Effe, e ne parleremo in altro pezzo.

Un fiume, Davide, come al solito. Avrei voluto fargli mille domande: dove finisce il tifoso ed inizia il GM? Riesci a non arrabbiarti in sede di rinnovo e tenerli tutti, quelli che contano? La finisci di raccontare la panzana che “sarà l’ultima stagione poi le energie finiscono”? Ma ho preferito tenermele, anche per pietà verso il folto pubblico che sarebbe stato costretto ad assistere ad un’ora di duetto fra lui e me. E poi ci sarà occasione: avevo promesso una cena a lui ed all’onnipresente Max Fontanini qualora fossero riusciti nell’impresa di vincere almeno il 50% delle gare. Ogni promessa è debito, e si parlerà di basket fino a quando dal locale ci cacceranno via. Parleremo di quanti giocatori abbiamo visto passare negli ultimi trenta, quarant’anni: da Walter a Praja, da Larry Wright a Solfrini, Lorenzon, Nater e i fratelli Savio; da Bettarini a Jerome e Charles il ragno nero... Fino a Teo, a Rasheed Anderson, a Donte, ai nascenti Antonutti e Pascolo e chissà quanti ne dimentico, come Carbonara McGhee, Andy Gaze, Hank McDowell, Marco “marine” Bonamico e uno dei miei preferiti dell’epoca-Snaidero, Nikos Vetoulas. Perché il basket è una malattia da cui non vogliamo, assolutamente, guarire.

 

Sezione: Primo Piano / Data: Ven 21 aprile 2017 alle 13:47
Autore: Franco Canciani
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