C’è un bel coro che fa la curva. Mi piace davvero, perché finisce con una frase emblematica: “onoro lo città.” Cerco su Goggle il significato di onorare e il motore di ricerca mi risponde: “Fare oggetto di onore, di stima e di rispetto, sia come tributo di riverenza imposto da un obbligo morale sia come riconoscimento del valore o del merito di qualcuno.”

L’Udinese di questi ultimi cinque anni ha disonorato la città, i tifosi, quelli che vanno allo stadio sempre e comunque e quelli da tastiera, gli abbonati e gli sporadici. Ha disonorato tutti coloro che seguono il calcio e tifano per i bianconeri, ma anche più genericamente la piccola patria nel suo insieme, nella sua storia e nella sua cultura. Forse è lo specchio dei tempi, con cooperative e banche che falliscono in mano a gente che ha scordato che significa il fasin di bessoi, più probabilmente ha subito una metamorfosi che la ha portata ad essere una rivendita continua.

La professoressa di Psicologia dell’organizzazione, all’Università, ci diceva che per capire a fondo la cultura di un’impresa così come la psiche di una persona, bastava indagare nella differenza fra il dire e il fare. L’Udinese ha iniziato la campagna abbonamenti con il motto tutto marketing, tanto emblematico, “Daremo l’anima”, eppure in campo succede l’esatto contrario. La società si professa salda e competente, un modello organizzativo unico nel panorama italiano, però manda la squadra in ritiro con cadenza colpevole.

Il ritiro è l’ultima arma dei deboli, l’evidenza di una prova schiacciante. Se si manda in ritiro la squadra significa che c’è anarchia, che manca la gerarchia, e quindi, in ultima analisi, che manca il manico. La colpevole assenza della proprietà vale più delle mille parole pronunciate nelle solite, ormai scontate, interviste. Prendete l’esempio di Jankto: il suo procuratore parla del Milan e il ragazzo (non) gioca una partita come quella di Firenze, dove a metà del secondo tempo perfino un compagno di reparto inveisce contro di lui per il continuo tirare in curva da posizione lontana dalla porta. Almeno quattro azioni buttate al vento, regalate alla Fiorentina sotto forma di rimessa dal fondo. Se ci fosse un comandante, all’Udinese, rimarrebbe in tribuna contro la Juventus con tanto di spiegazione: quello che dice un procuratore che rappresenta un giocatore, è come se lo dicesse il giocatore stesso. Un giocatore che con la squadra in crisi pensa al Milan a gennaio o giugno disonora la città, la sua storia, la sua cultura. Nessuno dice che non debba andare al Milan o a chi lo richiede. Ma ci deve andare per quello che dimostra con la nostra maglia, per come la suda. 

L’Udinese, per gestione della proprietà odierna, al secolo Gino Pozzo, è diventata un’azienda di vendita all’ingrosso, e non più una squadra di calcio. L’equilibrio fra risultati sportivi e plusvalenze proprio del Paron Giampaolo Pozzo è venuto meno. Siamo una squadra di "agenti di mercato". Giovani talentuosi vengono fatti giocare per essere venduti, al migliore offerente. Perché fare un buon mercato in entrata? Per venderli. Perché li comprano anche se qua da noi non ottengono risultati? Perché sanno qual è il nostro ruolo: stazionare in serie A e mettere minuti nelle gambe a giocatori che si impegnano solo quando gli conviene, per quel tanto che gli conviene.

La squadra, quella squadra che quest’anno ha affrontato Chievo, Spal, Torino e Fiorentina, è una squadra disonorevole, non meritevole di onore, non capace di onorare la città. La mia non è un’accusa, perché non è stato un caso sporadico, ma una constatazione dopo cinque anni di continue prese in giro. Il modo di fare calcio dell’Udinese odierna ha a che vedere con il business e non con lo sport, il lavoro, il sudore e lo sgarfare proprio di una cultura. La prova più lampante è il fatto che i mediocri (per qualità, non certo per doti umane e abnegazione sportiva) Ali Adnan e Matos hanno giocato meglio, molto meglio, di Jankto, Barak e compagnia cantante. Come è possibile, se non per la colpevole, volontaria, rinuncia della squadra a giocare, a lottare, a scendere in campo onorando la maglia?

Gino Pozzo dove era nella settimana del ritiro ante Sampdoria? Dove è ora? A volte ho pensato che il giovane successore del Paron non avesse le capacità per capire che serve un uomo forte all’Udinese. Dopo tutti questi anni, dopo quello che succede in Inghilterra, è legittimo intuire che la mancanza è voluta. Non serve un uomo forte perché non serve ottenere risultati. Il risultato è far mettere minuti nelle gambe ai giocatori, venderli e fare utili per altre società, mantenendo qua la struttura dei costi. Lo testimonia l’assordante silenzio e ancora di più la mancanza di disciplina verso le parole di questo o quello procuratore. E’ lontano anni luce il periodo in cui Marino metteva fuori rosa Pizarro e Iaquinta.

Intanto, l’Udinese del “Daremo l’anima”, delle trattative a gennaio con il Milan, dei dirigenti eroici (se non ricordo male) disonora la città. Ma tutti tranquilli, domenica arriva la Juventus e bisogna mettersi in mostra, ne va degli stipendi futuri. La maglia? quella non conta più da anni.

Sezione: Editoriale / Data: Mar 17 ottobre 2017 alle 18:10
Autore: Giacomo Treppo
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